Leonardo Caponi

PERUGIA -  Una insopportabile ipocrisia (vecchia di anni, ma resa più fastidiosa dalla crisi) caratterizza il dibattito economico nel nostro Paese: è la richiesta di Confindustria e, in genere, delle associazioni imprenditoriali, di una politica di liberalizzazioni e privatizzazioni che, per altro verso, il fior fiore degli economisti alla moda nei talk show radiotelevisi, indicano (ripetendo una litania diventata in parte senso comune) come indispensabili per uscire dalla crisi e “riprendere la “crescita”. Ancora in questi giorni, dalle colonne del Corriere della Sera che l’aveva criticata da “destra”, la Presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, torna a rivendicare e a rassicurare circa la linea “liberista” della sua organizzazione.

In che cosa consiste l’ipocrisia? Nel dire una cosa per chiederne un’altra. Gli industriali italiani non vogliono liberalizzazioni; vogliono regali! Una pratica liberalizzatrice e persino liberista seria (come fu quella praticata in altri Paesi) è devastante e va avversata da sinistra con ogni mezzo, ma ha, senza dubbio a modo suo, il carattere “nobile”di una grande, per quanto nefasta, politica.

In Italia siamo largamente al di sotto di questa soglia. Il capitalismo italiano è storicamente gracile e “assistito”. Lo sviluppo industriale del nostro Paese è stato reso possibile ed è avvenuto attorno a grandi investimenti pubblici e a grandi imprese pubbliche. La maggiore, tra le private, (che oggi con incredibile faccia tosta guarda altrove) ha ricevuto dai governi italiani una quantità tale di sovvenzioni, facilitazioni (e limitazioni per i concorrenti) da poter essere definita da qualcuno in passato come “parastatale” (anche se si può obiettare che, alla faccia del liberismo, questo, più o meno, è accaduto per i “campioni” industriali nazionali, in ogni parte del mondo).

Dice niente che quelle che dovevano essere le madri di tutte le liberalizzazioni di questi anni, sono fallite? La privatizzazione delle imprese strategiche nel campo dell’energia, dei trasporti e dell’industria avanzata (Enel, Eni, aziende ex IRI) non sono state impedite dai governi o dalla “politica”! Sono fallite, più semplicemente, perché in Italia nessuno disponeva dei capitali per comprarle (nemmeno in forma di gruppi di imprese o banche e imprese) e perché se, se fossero state vendute, sarebbero cadute in “mani straniere”! Dice niente che le uniche privatizzazioni “riuscite” (Telecom, Alitalia e tutte le altre) hanno avuto bisogno di tali e tanti interventi e facilitazioni da parte dello Stato (di carattere normativo –fino a leggi ad hoc!- e finanziario, ai limiti del codice penale) da apparire un insulto a quelle idee di concorrenza e libero mercato in nome delle quali sono state fatte e a cui ossessivamente si fa riferimento?!

E, quest’idea di privatizzazione come regalo torna oggi (un esempio tra gli altri) in un campione del capitalismo italiano, osannato dalle cronache, Luca di Montezemolo che, in cordata con altri, vorrebbe “conquistare” le ferrovie e si lamenta della concorrenza di Trenitalia. Bel modo di rischiare!: si prende un’impresa la cui struttura materiale (binari, stazioni, tecnologia ecc.) è stata costruita con i soldi di altri (lo Stato) e, per di più, si prende solo la parte redditizia, cioè l’alta velocità, lasciando al pubblico il peso di tutto il resto del servizio (dai pendolari, ai collegamenti “normali” tra le città)! In questo modo, ogni italiano sarebbe capace di fare l’imprenditore!

La verità dunque è che, dietro la strombazzata campagna sulla libertà di mercato, il grande capitalismo italiano (come, su altra scala, quello mondiale) vorrebbe sopperire alle sue perdite e alle sue difficoltà dividendosi le spoglie del patrimonio pubblico.
Una seconda ipocrisia del dibattito economico consiste nel presentare le piccole e medie imprese italiane in modo superiore alla loro reale consistenza. Le Pmi hanno grandi meriti e, tra loro, esistono, misconosciute, punte non rare di eccellenza in campo europeo e mondiale. Ma il 60 per cento di esse (anche e soprattutto quelle tanto decantate del nord est) non hanno mercato proprio e lavorano in rapporto di sub fornitura o sub appalto per le imprese maggiori (si ricorderà come fino a pochi anni fa il solo indotto Fiat valeva quasi un punto e mezzo di Pil) ed essendo, per lo più, sottocapitalizzate (e le banche tiranne col credito) non dispongono delle risorse necessarie ad acquisire e gestire (alla faccia della sbandierata “sussidiarietà”) imprese e servizi municipali o locali che, per questo motivo e non per altro, rimangono di proprietà pubblica.
C’è infine una terza, macroscopica, ipocrisia che consiste nel presentare come entità distinte, anzi configgenti, spesa pubblica (e quindi, si, anche…debito pubblico) e sviluppo economico. Le due cose, alla luce delle considerazioni precedenti, particolarmente in Italia sono strettamente correlate, anche se la stessa correlazione vale per tutti i Paesi avanzati dell’Unione europea e per quello che è considerato il “tempio” stesso del capitalismo mondiale, gli Usa, che, come è noto, sono riusciti a uscire dalle loro crisi più nere attraverso il ricorso a massicci investimenti pubblici nell’industria bellica.
L’economia italiana ha “smesso di crescere”, o cresce più lentamente, esattamente da quando è cominciato il taglio della spesa pubblica. Oggi, fare una manovra da 50 miliardi come quella attuata dal governo Berlusconi e parlare poi di decreto per lo sviluppo, significa prendere in giro la gente. Dispiace che a questo infondato e truffaldino senso comune si siano piegati, in Italia, anche il Presidente della Repubblica e tanta parte del mondo e degli esponenti politici dell’opposizione di centro sinistra. La verità è invece che se non riprendono (in forma selettiva e qualificata) gli investimenti pubblici (e i consumi), non riprende lo sviluppo e che il liberismo, che viene presentato come una sorta di legge della natura senza esserlo, ci condannerà al disastro, se non ce ne liberiamo al più presto.
 

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