PERUGIAdi Roberto Farneti (Liberazione del 25/09/2011)
Intervista ad Emiliano Brancaccio, docente di Economia Politica, Università del Sannio

Altro che salvare l'Italia. La ricetta di Confindustria è sbagliata perché «appiattita su una linea liberista, superata dai fatti, che non giova all'economia e danneggia le stesse imprese». Emiliano Brancaccio, docente di Economia Politica all'Università del Sannio, critica il manifesto in cinque punti lanciato a Firenze da Emma Marcegaglia.

La situazione economica dell'Italia resta grave. Lo spread tra Btp e Bund ha di nuovo superato i 400 punti, le stime di crescita sono state riviste al ribasso. In questo contesto, la Confindustria ha lanciato un "manifesto" per «salvare l'Italia» con al primo punto la riduzione della spesa pensionistica. E' questa la strada per far riprendere al paese il cammino per lo sviluppo?

Assolutamente no. Dal punto di vista degli interessi specifici dei lavoratori, il manifesto di Confindustria è contestabile per più aspetti. In primo luogo, perché suggerisce di intervenire in termini ancora più drastici sulla previdenza, con rinvii ulteriori dell'età di pensionamento. Teniamo presente, tanto per fare un esempio, che con le norme già vigenti le lavoratrici dipendenti tra 20 anni andranno in pensione oltre i 68 anni. Per Confindustria questa transizione va accelerata, con la giustificazione che la spesa previdenziale italiana sarebbe di 2,5 punti sopra la media Ocse. Ma si tratta di un calcolo discutibile, perché basti pensare che da noi i prepensionamenti sono conteggiati nella previdenza, mentre in molti altri paesi vengono inseriti nel bilancio statale come interventi anticrisi o di politica industriale. Per ridurre l'Irap sulle imprese e l'Irpef per i lavoratori, gli industriali propongono alcune misure di lotta all'evasione e una patrimoniale ordinaria sulla ricchezza. E su questo si può ragionare. Poi però propongono anche un ulteriore aumento dell'Iva. E questo non va bene. Perché l'Iva è un'imposta che ricade su una larghissima varietà di beni di consumo e quindi colpisce in modo pressoché indiscriminato consumatori ricchi e consumatori poveri. Ma il manifesto di Confindustria non funziona neanche dal punto di vista della logica del capitale. Vedo una lettura antiquata dei problemi, una sorta di adesione inerziale al liberismo ormai superata dai fatti.

E' "antiquato" parlare di liberalizzazioni, privatizzazioni e tempi rapidi per le grandi opere?

Parlare oggi di privatizzazioni con valori del capitale così bassi a causa della crisi, significa di fatto aderire a una logica speculativa. Perché a trarne beneficio non sarà il bilancio dello Stato ma soltanto coloro che potranno fare affari a prezzi scontati. Per quanto riguarda le liberalizzazioni, si dice che queste riducono i prezzi. Affermazione apodittica che non trova riscontri convincenti nella letteratura scientifica. Infine Confindustria chiede procedure più rapide per facilitare il coinvolgimento dei capitali privati nelle grandi opere. Ma si dimentica che in Italia c'è un gigantesco problema di reti, di trasporto e di servizi. Cioè beni pubblici in senso tecnico, che danno benefici anche alle imprese ma non generano profitti diretti. Quella di Confindustria è perciò una posizione miope dal punto di vista degli interessi nazionali e degli interessi delle stesse imprese.

Se questo non è il terreno giusto, allora dove si gioca la sfida per il futuro dell'Italia?

A me sembra grave che non sia presente nel manifesto di Confindustria nessun discorso sulla domanda effettiva, sul fatto cioè che ormai non si trovano più sbocchi per la produzione. La crisi del debito viene tutta da qui. Un punto che solleva problemi anche nel mondo imprenditoriale. Confindustria avrebbe dovuto mettere al primo punto del suo manifesto che l'attuale assetto della zona euro, per come è configurato, è insostenibile. E che occorre un motore interno dello sviluppo economico europeo, altrimenti in questa Europa è impossibile restarci. E ce ne accorgeremo. Se si vuole salvare l'unità europea, la Bce deve finanziare direttamente l'investimento pubblico, l'unico modo per far sì che dall'interno dell'Europa si attivi un volano della crescita che risolva anche la crisi del debito. Perché mi risulta che i debiti non si pagano se non si crea produzione e non si crea reddito. Dopodiché ha ragione Tremonti quando dice che molto dipende dalla Germania. Non è vero che i tedeschi sono i bravi della situazione e noi cattivi. Lo sviluppo economico della Germania in questi anni è dipeso dalla disponibilità dei paesi oggi sotto accusa a importare merci tedesche più di quante questi stessi paesi ne abbiano esportate in Germania. Chiarirei anche un'altra cosa. Se qualcuno in Italia e in Europa spera che la domanda di merci possa venire dalla Cina, se lo scordi. Perché la linea dei cinesi è di importare comunque meno di quanto esportino.

A proposito di finanziamenti europei, non è che in Italia l'esperienza dei fondi Fas sia stata sempre positiva. Le risorse comunitare da noi vengono spesso utilizzate poco e male.

Mi risulta tuttavia che il risultato netto di bilancio sia di avanzo primario. Voglio dire che quando lo Stato spende, alla fine eroga meno di quello che prende come entrate fiscali, al netto del pagamento degli interessi sul debito. Per quanto riguarda gli sprechi, il "mangia mangia", le clientele, la storia insegna che più si contrae il bilancio pubblico e più, in proporzione, aumenta la quota di clientela. Perchè a quel punto le poche risorse disponibili non vengono più utilizzate dai politici anche per realizzare opere di interesse pubblico ma solo per garantire la propria filiera di consenso. 

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