Pensioni, non è oro quello che luccica. Ma nemmeno è da buttare
di Sandro Roazzi
Sulle pensioni “ottenuto un risultato importante, chi si oppone rischia l’irrilevanza”. Frase dura quella della leader della Cisl, Furlan. Eppure dietro di essa è molto difficile scorgere fratture davvero profonde all’interno del movimento sindacale. Il giudizio differenziato che separa Cisl, Uil e la Cgil della Camusso, che ha varato una mobilitazione per dicembre, non sembra incrinare davvero quei rapporti ricostruiti nel periodo nel quale il sindacato veniva messo alla gogna e che reggono, al di là delle apparenze, anche in prove complesse come quella previdenziale. E va dato atto a questo proposito al comportamento della Uil di Barbagallo, che ha saggiamente tenuto a sottolineare il valore di preservare il rapporto unitario dalle conseguenze del negoziato. Proviamo a vedere il perché di queste considerazioni.
In primo luogo tutto il sindacato ha ottenuto un risultato non da poco: è caduta la logica ragionieristica secondo la quale, di fronte alla speranza di vita, tutti i lavori sono eguali. La tesi degli automatismi per far quadrare i conti senza guardare in faccia alla realtà e senza tener conto delle esigenze dei lavoratori è uscita battuta. E di questo esito dovranno tener conto anche in futuro i partiti.
In secondo luogo si va verso una visione dell’uscita dal lavoro più realistica, anche se la Commissione istituita per valutare categoria per categoria l’età pensionabile più…congrua è chiamata ad un compito difficile.
In sostanza si riafferma un ruolo del sindacato nel interagire con i mutamenti inevitabili del sistema del welfare, in modo tale che la legge dei conti non sia quella esclusiva ma coabiti, per dirla con semplicità, con le ragioni sociali che vanno tenute in considerazione.
Si rafforza inoltre il sistema che fa capo all’Ape social con l’ingresso di nuovi lavori gravosi. Non è ancora una vera flessibilità del sistema pensionistico(quanto mai essenziale per il futuro) ma è pur sempre una nuova breccia che lascia il problema aperto, ma al tempo stesso non mortifica categorie di lavoratori anziani alle prese con una pena del lavoro che diventa rapidamente una ingiustizia.
Ed ancora si delinea un percorso ancora in gran parte da percorrere, che però riduce gradualmente il rischio che migliaia di lavoratori vadano in pensione dopo un lungo periodo di disoccupazione o da inoccupati.
Certo il Governo poteva essere più coraggioso. Ha gettato sull’Iva ben 15 miliardi nella manovra, poteva francamente usare una parte di essi per rafforzare le sue aperture che pure ci sono state e che, va detto, sono arrivate sostanzialmente da Palazzo Chigi dopo alcuni tentennamenti del ministro Padoan. Ma è pur sempre un Governo giunto quasi al capolinea e dal quale era più facile sentirsi dire un ‘no’ che manifestare una disponibilità.
Il risultato concreto va misurato per quel che ha dato: 300 milioni indirizzati a venire incontro alle attese di forse 20mila lavoratori di nuove categorie.
E dunque il valore politico di questa intesa paradossalmente appare più rilevante di quello concreto. Ma anche in questo caso va fatta un’osservazione di merito: perché mai le migliaia di lavoratori che sono divenuti oggetto di questa moratoria sull’aumento dell’età pensionabile devono per forza rimanere inchiodati ad una sorta di serie B sociale, senza considerazione? E perché poi sottovalutare questa soluzione che apre prospettive migliori anche per altri settori di lavoro?
L’obiezione che è emersa in coloro che si sono eretti a critici delle proposte sulle pensioni riecheggia vecchi motivi di contestazione del ruolo sindacale: le confederazioni guardano solo agli anziani, i giovani sono fuori dalla loro tutela.
Il discorso si rifà alla richiesta, unitaria, di trovare forme di garanzia per le pensioni di quei giovani, e meno giovani, costretti per lunghi periodi alla precarietà del lavoro.
Il Governo ha risposto picche, su questo punto. Ha mostrato in questo caso la sua debolezza, al tempo stesso ha fatto apparire le promesse di taluni schieramenti politici, da quelle del centrodestra (i mille euro di Berlusconi) a quelle dei 5stelle con il loro reddito minimo, assai più invitanti.
Se si guarda con realismo allo stato delle cose, però, la situazione cambia. Intanto perché una riforma, perché è tale, di questo tipo ha bisogno di un quadro politico e di un consenso che oggi non è nemmeno ipotizzabile. Inoltre un intervento, certo necessario, in questa direzione presuppone inevitabilmente una riconsiderazione dell’intero sistema del welfare e del suo rapporto con quello fiscale per essere credibile. Ma proprio per tali ragioni le promesse dei due schieramenti politici che appaiono destinati a contrapporsi nel confronto pre elettorale e a disputarsi il successo nelle urne appare ancor più frutto di propaganda, invece che parte di un progetto di riorganizzazione compiuta di welfare.
Il nodo giovani resta insoluto, ma su questo punto non ci sono distanze di valutazione delle tre Confederazioni, semmai letture diverse del momento politico e sociale. Tanto è vero che difficilmente la confederazione più scontenta arriverà alla proclamazione, salvo sorprese, di uno sciopero generale a dicembre.
Sciopero generale che sarebbe a quel punto uno sfogatoio dall’esito incerto. E che sarebbe non semplice mettere in campo contro un Governo dai giorni contati e un Parlamento che già pensa alle elezioni.
Del resto sul piano più generale le prove che attendono le tre confederazioni sono di grande livello. Basta citarne solo tre: la questione salariale, il problema degli investimenti, il rischio di una accentuazione delle disuguaglianze sociali. Mantenere un passo unitario allora sarebbe perfino solo una prova di buon senso, al di là delle predisposizioni ‘politiche’. Nel frattempo, anche in questo caso chi sosteneva l’inutilità del sindacato dovrà ricredersi.
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