L'inflazione che si vede ma non c'è e l'occupazione che non va
di Sandro Roazzi
Lʼinflazione ad aprile si vede...ma non cʼè ancora. Sembra un gioco di parole, ma non lo è. Intendiamoci, il balzo in avanti cʼè, ma non quello che potrebbe far cambiare velocemente idea a Draghi sulla politica monetaria che, non a caso, rimane immutata (e non solo per le elezioni in Francia).
Il fatto è che lʼ1,8% tendenziale segnalato dallʼIstat ad aprile, superiore nettamente allʼ1,4% di marzo, ha nella composizione prevalente la spiegazione di quel che avviene e che dimostra che la domanda interna non è ripartita come si sperava, visto che la stragrande maggioranza delle nostre attività economiche è rivolta al mercato nazionale.
Frena il carrello della spesa, mentre salgono tariffe come gas e luce (non certo un viatico per i consumi) ed in particolare quelle autostradali. Se Benetton brinderà, non così farà lʼitaliano medio. La voce trasporti, inoltre, comprende le oscillazioni dei prezzi dei carburanti ed il cerchio, inflazionistico ma non troppo, si chiude così. Quello che manca, lo ricordava ...audacemente anche Draghi, è la spinta dell’inflazione da salari, che a sua volta dipende dallʼandamento occupazionale prima ancora che da quello contrattuale. Del resto molto sono stati i contratti rinnovati, ma lʼincidenza sui consumi è finora modesta e non solo per il contenimento degli aumenti.
Molto di più ha contato e conta la politica dellʼoccupazione. E su questo versante il cielo è davvero grigio. Se è vero che lʼoccupazione, quantitativamente, è cresciuta fino a lambire i livelli precrisi, è anche vero che le ore lavorate sono ancora distanti diversi punti da quelli stessi livelli. Ovvero molti italiani hanno campato di part time, di lavoretti, di contratti brevi. In tanti si sono divisi...il lavoro che cʼera, ma questo andamento non ha certo aiutato a dare stabilità e rafforzare i consumi. Si naviga a vista su livelli di pura sopravvivenza. Secondo lʼInps, poi, i primi due mesi del 2017 vedono le assunzioni a termine prevalere di gran lunga sui nuovi contratti a tempo indeterminato: 284mila contro 33mila. Lʼattivazione dei contratti a tempo indeterminato sconta una riduzione rispetto agli stessi mesi del 2016 del 12,7%. È
la conseguenza della fine degli incentivi e del ritmo lento della crescita, che risulta azzoppato anche dalla scarsa fiducia verso il futuro. In assenza di un sistema efficace di politiche del lavoro e con la latitanza di politiche industriali di lungo periodo, la situazione appare assai poco brillante. Anche in questo caso, però, il deficit peggiore è quello politico. La dialettica politica sembra viaggiare lontana da questi problemi, incapace di produrre per giunta idee nuove. Servirebbe rimettere i piedi per terra e ritornare ad immaginare assetti di società meno labili. Ma è una strada davvero in salita.
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