Job act, lo dicono i fatti: è stato un errore fatale. Usato in modo disgustoso
di Giuseppe Castellini
Il caso Ilva, ma anche decine di migliaia di casi avvenuti e che avvengono ogni giorno in Italia dimostrano come il job act sia stato concepito da moltissime imprese come un'arma di abbattimento gravissimo non solo dei diritti, ma molto spesso perfino della dignità dei lavoratori in quanto persone. Quello che i nuovi proprietari vogliono fare all'Ilva, insomma, è lo stesso di quello che molte le imprese hanno fatto e fanno in Italia, ossia usarlo per ridurre retribuzioni, condizioni di vita e di lavoro, rubare speranza di futuro. Quando non si arriva ad atteggiamenti illegali e talvolta criminali, che contano sulla lentezza e inefficacia della nostra giustizia, partendo dal dato di fatto che i colletti bianchi in carcere, in Italia, rappresentano una percentuale infima rispetto al dato degli altri Paesi europei e Occidentali (da noi, insomma, la fanno franca, e proprio perché è così la politica deve stare attenta a mettere loro in mano strumenti come il job act, che al di là delle intenzioni può essere usato come un'arma impropria, come appunto avviene ed era prevedibile che avvenisse).
Il job act, da questo punto di vista, è un atto che, invece di spingere il sistema imprenditoriale verso l'innovazione, lo stimola a scaricare i costi della competitività solo su un unico fattore produttivo, il lavoro. Un modo che serve solo a ritardare la crisi da scarsa competitività delle aziende, che umilia i lavoratori, che genera crescenti spazi di rabbia e protesta sociale di cui i segni iniziano ad essere evidenti e che inevitabilmente aumenteranno se non si cambia strada.
Un provvedimento che, proprio per la larga possibilità di scaricare tutto il peso sul fattore lavoro, ritarda l'innovazione e lo sviluppo e tende a non far crescere la produttività, che è il vero ritardo dell'economia italiana. Il job act, ma non ci voleva molto a prevederlo, è stato ed è usato come un'arma criminale da parte di molte imprese e rappresenta il fallimento più grave ed evidente del renzismo. Il job act va cambiato radicalmente. Basta farsi un giro per le sezioni Lavoro dei tribunali per accorgersi ogni giorno dell'uso del job act come strumento si sfruttamento e umiliazione.
Questo pare averlo perfettamente capito, a livello di governo, solo l'ottimo ministro Calenda, che è un liberale serio, non di quei servi sciocchi che sono liberali a parole ma che in realtà difendono, magari a gettone, gli interessi di pochi. Il primo servo sciocco, da questo punto di vista, è stato Matteo Renzi, che giustamente paga gli errori, peraltro portati avanti con arroganza pari solo alla loro insensatezza, delle sue politiche cieche.
I suoi epigoni, infatti, sembrano scomparsi e il suo partito, il Pd, viene abbandonato sempre più da fasce di piccola borghesia - che è il ceto politicamente cruciale e che è ormai la spina dorsale di un movimento come i Cinque stelle -, oltre che da fasce popolari,Quella parte di media borghesia che aveva appoggiato Renzi sta facendo ritorno a casa (il centrodestra) e l’alta borghesia italiana si sa come è fatta, va dove tira il vento. Anzi, ha nei decenni sviluppato una capacità notevole di capire dove si andrà a parare ai primi cenni di cambiamento del vento.
Questo un po' in tutta Italia, ma lo smottamento più grave appare evidente in regioni, come l'Umbria, dove il renzismo è stato interpretato in modo particolare come un mantra vuoto, cercando di coprire il vuoto di idee, di capacità vera di dialogo e di inefficacia delle politiche, soprattutto a livello di Regione. L'impopolarità delle Regioni, che è di molto cresciuta in tutta Italia, in Umbria infatti ha assunto dimensioni particolarmente gravi non tanto e non solo in termini assoluti, quanto in termini relativi, ossia rispetto a quanto avvenuto nel resto delle regioni italiane. Il gradimento della presidente Marini, secondo i sondaggi, in questi 7-8 anni di governo ha infatti avuto uno dei cali più forti tra i presidenti di Regione, finendo ormai quintultima secondo l'ultima rilevazione, relativa al primo semestre 2017.
E che il nervosismo da quelle parti sia alle stelle lo dimostrano anche le minacce di querela a quotidiani nazionali (Repubblica e La Verità) e gli atteggiamenti stizziti verso quella parte dell'informazione locale che fa bene il suo mestiere, con onestà intellettuale e forza morale. Si vorrebbe, probabilmente, un'informazione modesta, che vola basso, che nasconde. Per fortuna così ancora non è, nella maggioranza dei casi, nonostante il mondo dell'informazione oggi sia reso fragilissimo della crisi del settore e non manchino i tentativi di favorire un'inutile e sciocca guerra tra poveri (e, da questo punto di vista, almeno un caso in Umbria grida vendetta in quanto scorrettissimo sul piano sostanziale, benché magari corretto su quello formale, dimostrando solo l'autoreferenzialità e ormai l'inutilità di un ceto dirigente diventato così autoreferenziale che qualcuno parla di 'autismo istituzionale').
Oggi come oggi, va detto con amarezza, anche il governo regionale è, in Umbria, un fattore di ritardo che pesa e peserà sul futuro della regione.
Nascondere la polvere sotto il tappeto non serve a nulla L'opinione pubblica è molto meno sciocca di quello che, a volte, i modesti Palazzi di oggi credono o fanno finta di credere.
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