Se guardiamo al mondo di adesso e lo paragoniamo a quello delle grandi conquiste sociali degli anni ‘60 e ‘70 si capisce l’effetto dirompente che ebbero le politiche adottate in Inghilterra e negli USA alla fine di quel periodo. Una canzone profetica di diversi anni fa si domandava “Cosa resterà di questi anni Ottanta”. Resterà una lezione che dovremo meditare e rimeditare ancora.

In quegli anni in tutto il mondo industrializzato, e in Italia in particolare, si spense l’onda della lotta di classe che aveva attraversato per oltre un decennio il sistema industriale.

Il mondo di oggi è figlio di quel decennio, della globalizzazione liberista che ne seguì, della crisi di quella stessa globalizzazione alla fine dei primi anni del 2000 e la sua conversione nella de globalizzazione militarizzata, con il rischio di una guerra totale che si ingigantisce.

Oggi si dice che nel mondo industrializzato la lotta di classe “interna”, sostanzialmente a guida sindacale, è stata persa ma non è estranea a questa conclusione la difficoltà e la incertezza con cui operò in questo contesto il blocco “riformista”, dai democratici americani, alla socialdemocrazia europea, allo stesso PCI la cui parabola e il cui disfacimento non ebbe solo cause oggettive ma fu il prodotto di un convincimento profondo, anche se non espresso, che i cardini fondamentali del sistema capitalistico non potevano essere rimossi, quasi che fossero una intelaiatura naturale ed essenziale di ogni sistema economico moderno. Questo punto di vista prese sempre più piede nel gruppo dirigente di provenienza comunista e culminò nella fondazione del PD che faceva della irriformabilità del modello economico capitalistico il suo connotato principale.

La domanda che nasce a questo punto è se non sia una conclusione “naturale” il fatto che proporsi come partito del cambiamento senza praticarlo mai nella esperienza di governo sospinga proprio gli elettori che hanno più bisogno di cambiamento a sentirsi defraudati e ad abbandonare la speranza che la politica possa servire a qualcosa.

Il caso dell’Umbria è un vero paradigma.

L’Umbria era considerata dagli analisti politici il “ridotto rosso” della sinistra. Governata fin dalla istituzione delle regioni da un’alleanza di comunisti e socialisti, con la quasi totalità dei comuni con la stessa maggioranza di sinistra fin dal dopoguerra, sembrava la più solida delle regioni rosse.

A ben vedere c’era stata la vittoria per due consiliature del centro destra di Ciaurro a Terni, la capitale industriale dell’Umbria, ma la valutazione corrente era di un episodio eccezionale, frutto soprattutto di un colpo di coda della tangentopoli in quella città. Non si considerò il voto operaio e il suo peso decrescente nella considerazione dei ceti urbani. Non ci si accorse che la diminuzione del peso della questione operaia nel futuro della città preludeva ad una diminuzione della egemonia della sinistra su Terni.

Ancora nel 2000, con la presidenza regionale di Maria Rita Lorenzetti, insignita dalla opinione pubblica del titolo di “Zarina”, il centro sinistra in Umbria mostrava una solidità invidiabile.

I segni di un cambiamento profondo degli orientamenti politici dell’elettorato dell’Umbria cominciarono a presentarsi già nelle elezioni regionali de 2010.

Si amplificarono nel quinquennio successivo senza che ne fosse compresa bene la entità dalla coalizione di governo regionale che proseguì nella sua ordinaria amministrazione del presente ed esplosero con le dimissioni della presidente Marini a seguito della indagine della magistratura su fatti di concorsi manipolati nella sanità.

Nessuno aveva fatto attenzione a due fatti che avevano mutato la coalizione di governo. Il primo era la diminuzione costante dell’elettorato attivo, che mostrava una crescente disaffezione per la politica regionale. Il secondo che la maggioranza del 2010 si reggeva su una forte tenuta di Rifondazione comunista e sul risultato inatteso dell’Italia dei Valori, mentre diminuiva la rappresentanza del PD.

Nel 2014 alle elezioni comunali di Perugia era scattato un segnale chiarissimo del cambiamento in atto nell’elettorato. Il candidato del PD, sindaco uscente, era stato sconfitto al ballottaggio con un risultato nettissimo da quello del centro destra. Era accaduto solo una volta nel dopoguerra, negli anni dal 1964 al 1970, con Antonio Belardi in coalizione con la DC.

Entrambi questi ultimi fatti avrebbero consigliato un cambiamento dello stile di governo, improntandolo ad una maggiore attenzione verso il mondo del lavoro e verso gli strati meno difesi della società. Nulla di questo venne fatto e niente venne considerato di quanto stava avvenendo nel paese e nel mondo.

Il crollo della finanza mondiale del 2008 e la conseguente crisi economica avevano aperto una recessione economica pesantissima. L’Italia era al centro della crisi e l’Umbria in Italia stava subendo i colpi della recessione più di qualsiasi regione del centro nord. In quindici anni, dal 2000 al 2015, l’Umbria aveva perso oltre 15 punti di PIL, aveva ridotto i salari dei lavoratori di oltre 10 punti rispetto alle regioni vicine, aveva precarizzato la sua occupazione più di ogni altra regione con cui si confrontava fino ad allora. L’Umbria era scesa al disotto di alcune regioni del mezzogiorno.

Nel 2008 era nato il PD e in Umbria, come nel resto del paese, questo non fu un qualsiasi camuffamento politico di un partito sotto altro simbolo. Fu l’accettazione che la globalizzazione neoliberista aveva vinto e che la sinistra dovesse abbracciarne i principi e mitigarne gli effetti.

A ciò corrispose, almeno in Umbria, un cambiamento di gruppi dirigenti, dove si accrebbe il peso di quelli che provenivano dalla Margherita e che portavano nel PD una concezione della politica come lotta per il potere in quanto tale. A ciò corrispondeva l’obiettivo di spostare il baricentro del partito verso il centro.

Il PD si veniva configurando come il rappresentante degli interessi della media borghesia professionale e imprenditoriale a cui interessava poco il destino del mondo del lavoro delle grandi imprese, spesso multinazionali, e dei ceti meno privilegiati e più deboli.

Alla sua rappresentanza sociale, vissuta per tanti anni sui bassi salari, sulla stagionalità del lavoro, sulla precarietà strutturale del terziario di mercato, interessava un mercato del lavoro segmentato, instabile e precario e per questo obiettivo aveva trovato un forte interprete in Renzi, nuovo segretario del PD.

La incriminazione della presidente Marini ebbe l’effetto di dichiarare una sorta di liberi tutti, un permesso di sciogliere il vecchio vincolo dei valori della sinistra e ciò avvenne con una rapidità e una simultaneità impressionante.

Nessuno dei vecchi attoria fu un grado di ereditare niente da questo scompaginamento del sistema politico.

Quello che colpisce è che nel PD non si fece nessuna riflessione su questi elementi di fondo e tutto proseguì come se nulla fosse cambiato nel profondo, ma solo nel comando dell’amministrazione, nella distribuzione delle cariche interne e nell’alternanza del potere. Ci si accinse, quindi, a proseguire la vecchia strada nella speranza di riconquistare il ruolo perduto.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti. La destra ha vinto ovunque e si appresta a vincere ancora.

Quello che ora si può dire è che in Umbria la crisi della sinistra coincide con la crisi del PD ma altrettanto che quella del PD non fu la conseguenza della crisi della sinistra ma piuttosto la sua causa. Si è discusso molto se la linea giusta da seguire fosse quella interna la Pd, cioè quella di avviare una lotta in quel partito per riconquistarlo e ricondurlo sulla strada della sinistra. Importanti figure del PD si sono adoperato in questa direzione ma ad oggi non mi pare che si siano avuti risultati di qualche peso in questa direzione.

La discussione in atto sulle candidature per le elezioni comunali a Perugia era iniziata secondo le modalità consuete: spostare l’attenzione soprattutto nella direzione dei moderati di centro, nelle liste civiche che con facilità passano dall’appoggio al centro sinistra al centro destra.

Stavolta però questa linea non ha prevalso, lasciando uno spazio libero occupato da una figura nuova, quella di Vittoria Ferdinandi, capace di delineare un programma in grado di restituire un futuro alla città, unico modo per valorizzare il lavoro e dare una speranza ai ceti più disagiati.

Non voglio dire che siamo difronte a un cambio di rotta nel PD umbro. Si tratta però di un segnale importante che va nella direzione giusta.

Tutto questo mette ancora di più in evidenza che il principale problema della sinistra è la mancanza di un partito che abbia tra i suoi obiettivi il superamento del capitalismo. Il PCI aveva questa caratteristica di partito anti sistema e questo ne costituiva la irriducibile alternativa.

La nascita del PD fu l’accettazione del capitalismo come sistema vincente e costituente il futuro della storia. Il PD non è più o meno di sinistra ma semplicemente non è più collocato nell’ alveo della elaborazione che prese il via dalla analisi di Marx ed è ormai estraneo alla tradizione del movimento operaio.

Dovremo iniziare a porci questo problema senza preoccuparci dei tempi e delle forze che saranno necessarie.

 

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