Vita di Virgilio di Elio Donato (traduzione di Maria Pellegrini)
La più ricca “Vita di Virgilio” è quella di Elio Donato, il maggiore tra i grammatici del IV secolo, che quasi certamente dipende direttamente da quella, perduta, contenuta nel “De poetis” di Svetonio.
1) Publio Virgilio Marone, mantovano, ebbe genitori di modesta condizione, soprattutto il padre, che alcuni hanno tramandato fosse un vasaio, altri - e sono i più - che fosse al servizio di un magistrato, certo Magio, del quale grazie alla sua operosità divenne ben presto genero, e che accrebbe la sua fortuna con il commercio di terreni boscosi e l’allevamento delle api.
2) Nacque sotto il primo consolato di Cn. Pompeo Magno e M. Licinio Crasso, nel 70 a. C., nel villaggio chiamato Andes, non lontano da Mantova. Sua madre, mentre era incinta di lui, sognò di partorire un ramo d’alloro che al contatto con la terra aveva messo radici ed era subito diventato un albero rigoglioso e ricco di ogni specie di fiori e frutti. Il giorno seguente mentre si recava con il marito in un vicino podere si allontanò dalla strada e partorì il figlio in un fossato vicino.
3) Si tramanda che il bambino, appena nato, non avesse pianto e avesse un volto così mite che già allora i genitori ne trassero l’auspicio di un avvenire molto felice. E si aggiunse un altro presagio: un virgulto di pioppo piantato ove egli era nato, come era costume del luogo, crebbe così rapidamente da eguagliare l’altezza di quelli messi a dimora molto tempo prima. Al pioppo fin da allora fu dato il nome di “albero di Virgilio”, e, considerato sacro, divenne oggetto di grande venerazione da parte delle donne che prima o dopo il parto là promettevano o scioglievano voti.
4) Trascorse a Cremona i primi anni della sua adolescenza, fino a quando prese la toga virile, all’età di diciassette anni [sotto il secondo consolato degli stessi due consoli sotto il cui primo consolato egli era nato]; in quello stesso giorno accadde che il poeta Lucrezio morisse. Ma da Cremona Virgilio si trasferì a Milano e di lì a poco a Roma.
5) Fu di corporatura robusta e di statura alta, di colorito bruno e d’aspetto rude; la sua salute era malferma: infatti soffriva spesso di gola, di stomaco e di mal di testa; talvolta sputò sangue. Fu assai parco nel mangiare e nel bere, incline all’amore dei fanciulli, dei quali preferì in modo particolare Cebete e Alessandro, quest’ultimo chiamato Alessi nella seconda ecloga delle “Bucoliche”, e donatogli da Asinio Pollione. Entrambi erano abbastanza eruditi, Cebete era persino un poeta.
6) Si diceva che avesse avuto anche una relazione con Plozia Ieria (sposa di Vario Rufo) ma il filologo e storiografo Asconio Pediano attesta che lei stessa, ormai avanti negli anni, fosse solita raccontare che Virgilio, pur invitato dallo stesso Vario a far uso in comune di lei, avesse rifiutato con molta decisione (era in uso cedere la propria sposa ad un amico che non riusciva ad avere figli dalla propria).
Quanto al resto della vita, fu così onesto nel parlare e nel sentire che a Napoli (dove dimorò dal 48 al45 a.C.) lo chiamavano “il verginello”; e quando a Roma, dove si recava molto raramente, era visto nella strada, per sottrarsi allo sguardo della gente che lo seguiva e lo indicava, si nascondeva in qualcuna delle case vicine. Non se la sentì di accettare in dono da Augusto i beni di un condannato all’esilio.
7) Possedette quasi dieci milioni di sesterzi, elargiti dalla generosità di amici; ebbe una casa sull’Esquilino, presso gli orti di Mecenate, ma se ne stava quasi sempre lontano e solo, in Campania e in Sicilia. Già avanti negli anni perse i genitori – il padre era diventato cieco –, e due fratelli: Silone, adolescente, e Flacco, adulto, del quale pianse la morte sotto il nome di Dafni.
8) Coltivò, fra gli altri studi, le scienze naturali e specialmente l’astronomia. Sostenne anche una causa davanti ai giudici, una in tutto, né più di una volta. Melisso, un grammatico e poeta tramanda infatti che Virgilio era molto lento nel parlare da sembrare quasi un ignorante. Ancora fanciullo dette le prime prove delle sue doti di poeta componendo un distico contro un certo istruttore, Ballista, accusato di latrocinio e sepolto sotto un cumulo di pietre:
“Coperto da un cumulo di pietre è qui sepolto Ballista:
di notte e di giorno, o viandante, intraprendi sicuro il cammino”.
Scrisse poi le opere raccolte nella “Appendix Vergiliana”: “Catalepton”, “Priapei”, “Epigrammi”, “Le imprecazioni”, e così pure la “Ciris” e la “Zanzara” quando aveva ventuno anni. Della “Zanzara” l’argomento è questo: un pastore, afflitto dal caldo si era addormentato sotto un albero. Mentre un serpente si stava avvicinando a lui, una zanzara volò dalla palude e punse con l’aculeo il pastore, proprio dove si aprono le palpebre. Quello schiacciò la zanzara e uccise il serpente, poi costruì un sepolcro alla zanzara e vi incise questo distico.
“O piccola zanzara, il custode del gregge a te meritevole
offre questo monumento funebre in cambio del dono della vita”.
9) Scrisse anche l’“Etna”, un poemetto del quale è dubbia l’autenticità. Avendo in seguito cominciato a trattare la storia di Roma, sopraffatto dall’argomento, si diede a comporre le “Bucoliche” con l’intento anche di celebrare Asinio Pollione, Alfeno Varo, e Cornelio Gallo poiché durante la distribuzione delle terre transpadane, che dopo la vittoria di Filippi (42 a.C.) venivano divise tra i veterani per ordine dei triumviri, gli avrebbero garantito l’indennità. Scrisse poi le “Georgiche” in onore di Mecenate, che lo aveva aiutato contro la violenza di un veterano da quale poco mancò che non fosse ucciso durante il contraddittorio avvenuto nell’azione giudiziaria per le terre.
10) Da ultimo pose mano all’“Eneide”, opera di argomento vario e solenne e quasi pari ai due poemi di Omero, una fusione di personaggi e di fatti greci e latini, e nella quale si narrasse, come fine principale l’origine di Roma e insieme della dinastia di Augusto. Si dice che quando stava scrivendo le “Georgiche” fosse solito al mattino dettare ogni giorno molti versi e che passava poi tutto il giorno a limarli e a ridurli a pochissimi, affermando a ragione che produceva poesia come un’orsa che genera i suoi piccoli ancora informi e poi dà loro la forma giusta lambendoli.
11) Abbozzò dapprima l’“Eneide” in prosa e la divise in dodici libri, e poi cominciò a volgerla in versi, parte per parte, a suo piacimento senza seguire un ordine preciso. Inoltre per non interrompere il flusso dell’ispirazione, lasciò taluni passi incompiuti e in altri inserì versi banali per sorreggere provvisoriamente la composizione, versi che scherzando diceva gli servissero da puntelli per sostenere la struttura del lavoro in attesa che solide colonne li sostituissero. Tre anni impiegò a comporre le “Bucoliche”, sette le “Georgiche”, undici l’“Eneide”
12) Le “Bucoliche” ottennero tanto successo da essere declamate e rappresentate spesso in teatro da artisti del canto.
Ritornato Augusto dopo la vittoria di Azio, e dimorando ad Atella per guarire dal mal di gola, Virgilio gli recitò per quattro giorni consecutivi le “Georgiche”, e Mecenate si avvicendava al poeta nella lettura ogni volta che s’interrompeva per la stanchezza della voce.
Virgilio declamava in modo soave e con mirabile fascino. Seneca ci informa che il poeta Giulio Montano soleva dire che egli avrebbe rubato versi a Virgilio se avesse potuto rubargli anche la voce, la pronunzia e la mimica. Diceva che gli stessi versi, suonano bene se pronunciati da lui, senza di lui sono vuoti e muti.
Quando l’“Eneide” era appena cominciata suscitò tali aspettative che Sesto Properzio non ebbe timore di dichiarare.
“Cedete poeti romani e voi poeti di Grecia,
un’opera più grande dell’Iliade sta nascendo”. (Properzio, “Elegie”, II, 34 65-66)
13) E Augusto, che era lontano per la spedizione militare contro i Cantabri (dal 27 al 25 a.C.), scriveva al poeta chiedendogli, ora con suppliche, ora con scherzosa minaccia, di mandargli – sono proprio le parole di Augusto – “o il primo abbozzo o qualche passo a sua scelta”. Ma solo molto tempo dopo, quando il poema era praticamente terminato, Virgilio consentì a recitarne all’imperatore una parte e anche allora soltanto tre libri, il II, il IV, il VI, quest’ultimo suscitando grande dolore in Ottavia sorella di Augusto e madre del giovane Marcello, che presente alla lettura si dice sia svenuta nell’udire i versi che si riferivano a suo figlio e che solo con grande difficoltà poté riaversi. Recitò davanti a più numeroso uditorio, ma di rado, e in tal caso solitamente i passi dei quali non era sicuro per sottoporli al giudizio del gusto altrui. Si dice che Erote, liberto e segretario del poeta, da vecchio ricordava come una volta Virgilio durante una lettura avesse completato all’istante due versi incompiuti. e dette immediatamente ordine a lui di trascrivere nel testo le due aggiunte.
14) All’età di cinquantadue anni, desiderando dare l’ultima mano all’“Eneide”, pensò di partire e di ritirarsi in Grecia e in Asia per tre anni consecutivi e dedicarsi completamente alla revisione, così da potersi occupare per il resto della sua vita allo studio della filosofia. Ma all’inizio del viaggio, avendo incontrato ad Atene Augusto che ritornava a Roma dalla Grecia, insieme con lui, si recò a visitare la vicina città di Megara in una giornata caldissima. Cadde ammalato, ma nonostante ciò volle imbarcarsi per l’Italia. Le sue condizioni peggiorarono ed era già grave quando sbarcò a Brindisi, dove morì pochi giorni dopo. Era il 21 settembre, sotto il consolato di Cn. Senzio e Q. Lucrezio. I suoi resti furono trasportati a Napoli e lì affidati al sepolcro che si trova sulla via per Pozzuoli, proprio prima della seconda pietra miliare, sul quale sepolcro è inciso il distico seguente da lui stesso composto:
“Mantova mi generò, mi rapì la Calabria, mi tiene ora
Napoli; cantai i pascoli, i campi, i duci”.
15) Lasciò in eredità la metà delle sue sostanze a Valerio Proculo, suo fratellastro nato da un altro padre, la quarta parte ad Augusto, la dodicesima a Mecenate, e il resto a L. Vario e a Plozio Tucca che dopo la sua morte emendarono e pubblicarono l’Eneide” per ordine dell’imperatore. A tale proposito rimangono i seguenti versi composti dal grammatico Sulpicio [di Cartagine]:
“Virgilio aveva ordinato che voraci fiamme distruggessero
quel poema che cantava la storia del duce Frigio.
Ma Tucca e Vario rifiutano, e anche tu, o grandissimo Cesare,
non lo permetti, e così ben provvedi alla storia del Lazio.
L’infelice Pergamo quasi cadde per un duplice incendio
e la gloria di Troia quasi fu bruciata in un secondo rogo”.
16) Prima lasciare l’Italia, si era accordato con Vario: se a lui fosse successo qualcosa, avrebbe dovuto bruciare l’”Eneide”; ma Vario s’era categoricamente rifiutato di farlo. Perciò nell’ultima malattia chiese ripetutamente che gli fossero portati gli scrigni per bruciare lui stesso l’opera. Nessuno glieli volle dare: allora dell’“Eneide” non parlò più esplicitamente, ma lasciò a Vario e a Tucca tutti i suoi manoscritti, con questa disposizione: che non pubblicassero niente di quello che non era stato reso pubblico da lui stesso. Invece Vario, su sollecitazione di Augusto, pubblicò il poema con una semplice revisione, tanto è vero che lasciò imperfetti persino i versi incompiuti: versi che molti poi tentarono di integrare, ma con scarso successo per le difficoltà incontrate poiché tutti erano assolutamente completi nel senso.
Ho tralasciato i due capitoli dei detrattori di Virgilio perché lui stesso non aveva dato importanze alle critiche “per non dare soddisfazione ai malevoli”.
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