Tre fatti di fine anno, pescati nel sacco della Befana, ci mettono di fronte tutti, e in termini inequivocabili, al fenomeno politico e istituzionale che caratterizza, nel nostro Paese, il nostro tempo. Si tratta di un fenomeno dell’importanza decisiva, sebbene pressoché ignorato dalla politica. Si potrebbe dire che la causa di questa ignoranza risieda proprio nel fatto che la politica e i partiti sono tra i suoi concorrenti principali e insieme le sue vittime. Il fenomeno può essere definito come nientemeno che il rovesciamento dell’ispirazione della Costituzione repubblicana.

Il primo dei fatti a cui ci si riferisce qui riguarda le stesse istituzioni. La nostra è una repubblica parlamentare nella quale ora però è messo in mora proprio il Parlamento. Il varo della Legge di bilancio sarebbe uno dei suoi compiti principali. Anche quest’anno, a questo compito, il Parlamento è sostanzialmente venuto meno. Il suo testo, dopo essere stato approvato al Senato la settimana prima di Natale, è passato alla Camera per essere approvato entro il 31 dicembre, al fine di poter evitare così l’esercizio provvisorio. Il passaggio alla Camera è quindi reso finto, vuoto. Il testo, infatti, non può essere più modificato in questo ramo del Parlamento, né in tutto, né in parte, altrimenti dovrebbe tornare in Senato e salterebbe tutto l’impianto che sovrasta le scelte compiute. Un ramo del Parlamento è così costretto all’impotenza, mentre il voto di fiducia lo imbavaglia. È una camera muta. La cosa è inaudita e ancor più lo è perché reiterata negli anni.

Questa volta lo scandalo è stato tanto clamoroso che la Commissione finanza della Camera ha deciso di rifiutarsi di esprimere il proprio parere richiesto sulla Legge di bilancio. Lo strappo istituzionale è netto. Il suo presidente ha dichiarato che “qualcuno deve pur dire che il re è nudo e che la macchina non funziona più”. A doverlo dire, questa volta, non è un contestatore, ma un rappresentante istituzionale che, consapevole del gesto di forte denuncia dell’espropriazione operata da parte del governo di una fondamentale prerogativa del Parlamento, aggiunge: “il nostro non è un gesto irresponsabile, sarebbe irresponsabile far finta di niente”. “La macchina non funziona più”, ma questa macchina, la macchina di cui si parla, è il Parlamento. Dunque, è la nostra repubblica parlamentare, dettata dalla Costituzione, ad essere in crisi. La centralità del Parlamento da essa prevista a presidio del carattere democratico della decisione pubblica è stata di fatto abrogata. Il vulnus è molto grave.

Ma la nostra repubblica – non solo un certo suo assetto istituzionale – è pure definita da un preciso connotato sociale, perché è “fondata sul lavoro”. È dicembre, verso Natale, da alcuni titoli dei giornali: “Una gru crolla a Torino, tre operai morti. In tre giorni, dieci lavoratori hanno perso la vita”; un altro titolo: “Ancora quattro morti sul lavoro. Due erano in nero, incidenti a Ischia, Taranto e nel Salernitano”; un altro titolo ancora: “Incidenti sul lavoro, un portuale di Trieste muore schiacciato da una gru”; un altro ancora: “Morto sul lavoro in pieno centro di Roma. Un operaio cinquantenne precipita da un ponteggio”. Il direttore dell’Ispettorato nazionale del lavoro denuncia nel frattempo che nove imprese edili su dieci non sono regolari. Il dato parla di una realtà terribile, ma l’irregolarità, cioè la sottrazione a una legge di una parte grande delle imprese, è solo una faccia del prisma del lavoro così come si configura oggi in Italia. Tre morti al giorno sul lavoro. Nell’anno appena conclusosi sono morti – sono stati uccisi, cioè – 1404 persone sul lavoro. C’è stata la ripresa, e con essa, c’è stato l’aumento dei morti sul lavoro. Implacabile rapporto. Nel 2021 ci sono stati il 18% in più di morti che nell’anno precedente.

Sì, mancano i controlli, ma la causa di questa tragedia è più profonda. Sono stati buttati nella discarica i diritti e il potere dei lavoratori sulla propria prestazione lavorativa; aumentano i morti sul lavoro perché degrada il lavoro nelle sue caratteristiche di fondo. La precarietà è il tratto dominante della nuova condizione lavorativa. E lì si annida strutturalmente la voragine che inghiotte persino le tutele elementari dei lavoratori. Il Pil vola oltre il 6%, oplà! Ma l’occupazione invece no. Peggio ancora se guardi alla sua qualità. Nel terzo trimestre dello scorso anno, secondo l’Inps, il 31% dei contratti a tempo, che pressoché esauriscono la crescita dell’occupazione, dura mento di trenta giorni; e di questi, il 15% dura tra gli otto e i trenta giorni e il 7% tra i due e i sette giorni, il 10% dura persino un solo giorno. L’esposizione al rischio di malattia, di infortunio, fino al mostruoso esito mortale cresce perché declina nel mondo del lavoro il riconoscimento sociale, politico, economico del ruolo dei lavoratori e delle lavorartici e perché è abbattuto il potere contrattuale e di controllo dei lavoratori. Entrambi sono schiacciati dal dominio acquisito, nell’economia e nella politica, dal profitto, dalla competitività e dal mercato. Da un lato, il Parlamento è sospeso, dall’altro l’art. 1 della Costituzione è beffato.

Il terzo fatto, in sé modesto ma significativo, riguarda il fisco e specificatamente il provvedimento del governo Draghi sulla modifica dell’Irpef. Insisto, si tratta di un piccolo episodio della politica economica in atto, che però qualcosa ci dice. Di che cosa si tratti ce lo spiega l’Ufficio parlamentare del bilancio della Camera che ha calcolato che il vantaggio migliore della riduzione dell’Irpef previsto dalla Legge, che partirà nel 2022, sarà per i redditi medio-alti, mentre il 20% delle famiglie più povere rimarrà “sostanzialmente escluso” dai benefici. Un piccolo fatto che si somma però a tanti altri fino a comporre la montagna delle diseguaglianze che infatti crescono e continuano a crescere, sono cresciute nella crisi pandemica e continuano a crescere nella nuova fase caratterizzata dalla ripresa e dalla crescita economica. E poi, ci si stupisce della convocazione di uno sciopero generale.

Questa tendenza alla diseguaglianza è così organica al nuovo corso che neppure quando si potrebbe dare un piccolo, piccolissimo segnale in controtendenza rispetto ad esso, il potere pubblico nega anche questo. Ma tutta l’ispirazione della Costituzione, il fondamento stesso della sua concezione della democrazia, riposa nel contrario di questa tendenza in atto, risposa cioè nell’impegno pubblico, il compito della Repubblica, contro l’economia della diseguaglianza.

Nella democrazia della Costituzione, questa è inscindibile dal compito che la Repubblica deve assolvere per la conquista delle eguaglianze. Tre fatti pescati sul finire dell’anno appena concluso ci dicono allora che il paradigma della Costituzione è stato rovesciato nella morte della politica. È in atto una contraddizione, democraticamente intollerabile, tra il dettato della Costituzione repubblicana e l’assetto sociale e istituzionale ogni giorno realizzato dalla politica nella sua costituzione materiale.

Non si può pensare che la politica possa rinascere, e con essa quell’altro pilastro della Costituzione che sono i partiti, se non assumendo in questa realtà a compito principale e sovraordinatore di ogni politica il rovesciamento del rovesciamento fin qui realizzato del paradigma costituzionale, cioè senza assumere l’impegno di ridare vita a quell’ispirazione costituzionale oggi sistematicamente tradita. Forse questa questione potrebbe riguardare anche l’elezione del prossimo presidente della Repubblica. Bisognerebbe almeno che essa venisse attraversata da un principio di verità, da opporre alla retorica e alle mistificazioni nelle quali vengono avvolte le diverse propensioni ai diversi e nascosti candidabili.

Una buona partenza sarebbe una rottura con questa prassi, sarebbe sostituire, all’ipocrita necessità che il presidente auspicato debba essere al di sopra delle parti, la necessità drammaticamente attuale di essere da una sola parte, dalla parte della Costituzione repubblicana oggi tradita, per favorirne la riconquista. Insomma, anche alla luce di questi pochi fatti, si potrebbe dire che ci vuole un presidente partigiano.

Fausto Bertinotti

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