di Paolo Brutti

L’articolo di Veltroni sul Corriere della Sera rivela una cosa molto interessante.

Da come lui pone le cose sulla semplificazione del sistema politico e sulla riproposizione del maggioritario si capisce che la frattura che ha attraversato il Pd portandolo nelle grandi difficoltà di consenso in cui si trova non deriva tanto dall’incontro inconciliabile di due culture politiche incompatibili come quella comunista e quella democristiana ma piuttosto da una divisione interna al gruppo dirigente di origine comunista che l’incontro con quello di origine democristiana non ha risolto, anzi ha aggravato.

È l’idea che le trasformazioni del mondo e dell’Italia siano guidate in modo ormai indiscutibile dalle forze più trasformative del capitalismo della globalizzazione (addirittura sostenendo che i mali dell’Italia derivano massimamente dalla carenza del nostro capitalismo di questa capacità innovativa) e che l’unico paese che si è realmente misurato con la profondità del cambiamento dei rapporti di potere tra Stato e impresa siano gli Stati Uniti.

Da qui l’idea di importare alcuni modelli culturali di oltreoceano per farli vivere nella nostra tradizione e di alcuni modelli politico-istituzionali giudicati gli unici capaci di convivere in modo coerente con il turbine innovativo del nuovo sistema economico mondiale. Da qui anche l’enfasi sulla governabilità, sulla stabilità e sulla semplificazione della politica, svincolandola dal peso delle culture politiche europee, dalla loro dipendenza da costruzioni teoriche, storiche e filosofiche, del tutto tramontate e l’abbraccio del presidenzialismo americano come modo di identificare una intera politica in un capo ispiratore e rappresentatore di quella, capace al tempo stesso di dividere gli schieramenti e riunire il paese.

Tralascio la critica a questa visione che dice che essa prescinde dalla struttura dei sistemi costituzionali europei, quasi tutti a base parlamentare, e sulla vicenda storica dei partiti europei che non va nella direzione della semplificazione.

Osservo invece che dalla vicenda politica americana di può trarre la lezione che questa plasmatura del sistema politico su quello economico ha avuto un esito nefasto per la sinistra storica americana, chiamando così il blocco sociale e politico costruito durante la grande depressione sotto la guida di Roosevelt.

Inevitabilmente la sinistra storica americana ha conteso alla destra il centro dello schieramento politico, mettendo molta acqua nel suo vino, anche con Obama, fino a far pensare a strati di opinione pubblica popolare e operaia che quella sinistra fosse un tutt’uno con l’establishment.

La destra, invece, ha avuto buon campo per estendere la sua posizione verso connotazioni di schietta ideologia reazionaria sfiorando forme che l’America conobbe solo negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale, con l’infatuazione per la Germania di Hitler.

È proprio questo l’effetto che Veltroni vorrebbe per l’Italia: una sinistra spostata su posizioni moderate per competere al centro e una destra normale, assolta da ogni colpa di ascendenza con il totalitarismo del novecento e signorilmente tesa a rimettere ogni pochi anni la corona in palio al centro del ring politico. Tutta un’altra cosa dai pieni poteri di cui si è sentito parlare l’estate scorsa.

Ognuno faccia le sue considerazioni ma questo dovrebbe essere il cuore del prossimo congresso del Pd e non la sterile riproposizione degli stilemi inariditi del Partito a vocazione maggioritaria.

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