Di Stefano Vinti

La recente scomparsa di Samir Amin, economista franco-egiziano, marxista, è anche la fine di un militante politico, nonché di uno degli ultimi intellettuali impegnati a 180 gradi nelle battaglie dei movimenti: dalla stagione dei “non allineati” al confronto con i “no global”.

E, come ce lo ricorda, in un bel articolo su “Il Manifesto” Luciana Castellina: “un marxista  capace di aggiornare senza dogmatismi il suo pensiero agli sconvolgimenti del dopo-guerra”.

Samir Amin ha attraversato la seconda metà del Novecento assistendo alla conferma e alla smentita, delle sue tesi sullo “sviluppo ineguale” che lo hanno reso noto in tutto il mondo.

Il suo assillo era sottrarre i Paesi poveri alla dipendenza delle potenze occidentali.

Come ha scritto Antonio Caroti sul Corriere della Sera del 14 agosto: “Di certo il suo celebre testo – Lo sviluppo ineguale (Einaudi, 1973 – era una forte denuncia dello sfruttamento nei coloniale che considerava la chiave di volta del sistema capitalista. E in alternativa proponeva un modello – auto centrico – che consentisse agli Stati del Terzo Mondo di soddisfare i bisogni delle masse, sfuggendo al destino della subalternità riservata loro dal sistema dominante”.

Infatti, Benedetto Vecchi sempre su Il Manifesto del 14  agosto, così pone la questione secondo Samir Amin: “Lo sviluppo capitalista esercita una vocazione egemonica che punta a disegnare il mondo a sua immagine e somiglianza, ma la persistenza di forme economiche non capitalistiche può costituire il porto di imbarco di modi di produzione sperimentali”.

Samir Amin nasce a Il Cairo nel 1831 da padre egiziano e madre francese.

Vive e studia a Parigi, economia e statistica, dove milita nel Partito comunista francese e poi nei gruppi rivoluzionari rapiti dalla Rivoluzione culturale di Mao. E’ dura la sua critica all’espansionismo sovietico e alla convinzione terzo internazionalista che lo sviluppo economico doveva necessariamente passare attraverso una intensiva industrializzazione.

A suo parere l’Urss era un caso di “capitalismo senza capitalisti”. Era distante anche da ogni visione determinista: non pensava affatto che la crescita spontanea delle forze  produttive avrebbe condotto al socialismo, per raggiungere il quale era necessario uno “sforzo cosciente” degli sfruttati.

Tornato in Egitto aderisce al panarabismo e poi ne prende le distanze. Sfuggito nel 1960 alla repressione di Nasser, svolge il ruolo di consigliere economico in molto Paesi africani, dirige il Forum del Terzo Mondo a Dakar, in Senegal, si trasferisce in Mali dove diventa ministro dell’economia.

Sono gli anni in cui Samir Amin entra in contatto con economisti, sociologi, filosofi, politologi che affrontano il nodo sviluppo/sottosviluppo e che costituisce un laboratorio politico e teorico che produce idee, proposte e materiali per la sinistra mondiale antimperialista che cerca una terza via tra il capitalismo e il sovietismo.

Negli anni ottanta, Samir Amin teorizza la necessità di uno sganciamento delle economie dalle interdipendenze di un capitalismo sempre più globale. Una posizione minoritaria anche in campo marxista, ma anni dopo con la crescita del movimento no-global nel sud del mondo incontrerà l’interesse degli attivisti “altromondisti”.

E’ una delle voci più ascoltate nei forum sociali di Porto Alegre, in Asia, in America, anche per le sue analisi sulla crisi del capitalismo. A differenza di molti critici dello sviluppo, Amin è infatti convinto che la crisi del capitalismo non è un fatto accidentale, ma strutturale e che il doppio legame tra sviluppo e sottosviluppo era necessario  proprio per gestire le crisi da sovrapproduzione, finanziaria e di “composizione organica del capitale” che caratterizzano l’economia mondiale.

Di recente Amin, che considerava il capitalismo avviato verso la catastrofe in quanto generatore di squilibri insanabili, aveva invocato il recupero di “una sovranità popolare in opposizione alla sovranità nazionalista borghese delle classi dirigenti”, allo scopo di far “arretrare la mondializzazione imperialista contemporanea”.

In uno degli ultimi scritti ha difeso il modello cinese, sostenendo che la Cina in “fabbrica del mondo” non era espressione di un capitalismo governato dallo Stato, ma una contraddittoris esperienza di un socialismo di mercato che poteva costituire un’alternativa alla triade imperialista costituita da Usa, Europa e Giappone.

Samir Amin, seppur noto in Italia, da noi non godeva però della popolarità che riscuotono altri teorici marxisti e di sinistra, ma è stato fondamentale per tutta una generazione di militanti antimperialisti che hanno lottato e che continuano a lottare in questi tempi difficili.

Condividi