Il grido del popolo degli abissi ignorato da anni

La sinistra è complice del sistema e se ne frega del lavoro

 

Lavoro salariato è stata la definizione di una condizione sociale che ne ha penetrato la realtà più profonda, quella che il sistema vorrebbe nascosta. La sua uscita dalla scena politica ha lasciato quest’ultima ignorante e ha contribuito a tenerla lontana dal mondo del lavoro. La sinistra si è persa e si è aggrappata, per sopravvivere, al governo, vivendo come istituzione anche quando espulsa da tanta parte della società civile, a partire da quella nella quale si era affermata e nella quale aveva la sua prima ragione di esistenza. Così ha assistito inerte, quando non complice, alla rivoluzione passiva e restauratrice del lavoro e al precipitare del salario.

Era il 1928 quando l’Unità di Antonio Gramsci titolava: “A salario di merda, lavoro di merda”. Era un invito alla resistenza contro “l’ondata di riduzione dei salari”. È raro nella cultura del Movimento operaio, e in particolare di quello comunista, il ricorso a un linguaggio volgare. Qui, il ricorso adesso voleva indicare il rifiuto di una condizione diventata insopportabile e una lotta operaia praticata come sottrazione al lavoro, la sua parola è: boicottaggio. Nelle stesse pagine dell’Unità si leggevano gli obiettivi della lotta così proposta: «Vogliamo un posto fisso, lavorare meno, essere pagati di più, diritti sindacali e essere partecipi del processo decisionale dell’azienda controllandone la proprietà. Vogliamo il socialismo». In pieno fascismo vittorioso, senza poter ricorrere all’arma dello sciopero, ecco emergere la forza dell’ideologia, del conoscere il significato profondo di quel lavoro salariato. Gli autori del titolo non potevano immaginare che, quasi 100 anni dopo, la parola dell’invettiva non sarebbe stata in atto come opposizione alla realtà sociale del lavoro nel Paese, ma avrebbe purtroppo descritto sia il lavoro che il salario, cioè avrebbe descritto la realtà subita. Quando la politica, e la sinistra in particolare, dice che dovrebbe ripartire dal lavoro recita una parte in commedia. Basterebbe a rivelarlo che così ci si riferisce sempre a un termine neutro “il lavoro”, mai ai lavoratori e alle lavoratrici in carne e ossa che invece proporrebbero il grande tema della soggettività.

Ricominciare dal lavoro, hai detto un prospero. Bisognerebbe, per farlo, riscalare proprio la montagna dell’ideologia, riscoprire attraverso di essa lo sfruttamento, l’alienazione capitalistica in quel lavoro che, pur tanto cambiato, resta in fondo salariato. Bisognerebbe leggerlo attraverso l’inchiesta partecipata dai lavoratori interessati, penetrando nelle sue innumerevoli forme concrete, destrutturate e disarticolate, come sono diventate. Rileggere per parteciparvi attivamente, cosa oggi del tutto sconosciuta, le nuove realtà della lotta di classe. E bisognerebbe così scendere in basso, per incontrare il nuovo popolo degli abissi, quegli abissi in cui è stato fatto precipitare il mondo del lavoro. Non vedo proprio come questo appello possa essere raccolto da chi, come la politica istituzionale, e in esso quello della sinistra politica, risulta interno al processo che ha prodotto la caduta del mondo del lavoro. Ma si potrebbe obiettare che si può sempre cambiare, che gli appelli che vengono anche da autorevoli intellettuali, critici, potrebbero al fine essere accolti.

Il problema è che il suo coinvolgimento nelle politiche di attacco alle conquiste e di sostegno alla primazia dell’impresa e del mercato sul lavoro sono ancora la pratica dell’oggi, e non solo di ieri, in quei soggetti politici, come si vede dal sostegno acritico alle politiche economiche e sociali del governo Draghi. L’uno e l’altro, l’alto e il basso richiederebbero per essere affrontati un cambio del paradigma rispetto alla storia della sinistra politica dell’ultimo quarto di secolo; richiederebbero cenere e resurrezione come nell’araba fenice. Meglio cercare altri protagonisti e direttamente nel sociale. Che il lavoro sia in tutto l’Occidente aggredito a 360 gradi lo dice anche il più recente fenomeno nato negli Stati Uniti, dove proprio ora numerosi lavoratori lasciano l’impiego anche senza garanzie nel loro futuro. È una forma inedita di rifiuto. Da noi, il campo del lavoro è ugualmente devastato e niente sembra cambiare. È dentro quella realtà che devi andare. Lì incontri quelli che lavorano con salari di 3, 4, 5, 6 euro all’ora; quelli del tirocinio e del lavoro gratuito, quelli da 400 euro al mese e costretti a due-tre lavori contemporaneamente, tutti precari e spesso in nero; quelli sottoinquadrati; quelli a part-time involontario, donne in prevalenza, come nel lavoro di cura opacizzato; quelli con i contratti a termine, in costante aumento e per sempre meno tempo; quelli a somministrazione. Insieme fanno l’universo del lavoro povero.

 

Accanto ad esso trovi l’area vasta del super-sfruttamento, degli straordinari ridotti a ordinari e non retribuiti, come il lavoro domenicale e notturno. Sopra, a non considerare i lavori ricchi, quelli creativi, appaganti, che peraltro sono pochi e interni ai nuovi circuiti internazionali, c’è quello che è ancora considerato il lavoro tradizionale: nell’industria, nel pubblico impiego e nei servizi strutturati. Considerato spesso residuale, per ignoranza o per ideologia, quella cattiva oggi vincente, è il campo dove vige il contratto nazionale di lavoro e, in certe aree, la contrattazione aziendale. Con un altro sfondamento ideologico contro il lavoro sono riusciti a farlo considerare, da tanta parte dell’informazione e degli analisti, come lavoratori protetti, come garantiti, anche quando esposti, come sono e come si vede in tanti casi di chiusura di fabbrica, al rischio di licenziamenti. È comunque il campo del salario contrattuale. La dinamica salariale resta una misura decisiva, dello stato della civiltà del lavoro in un Paese e un indicatore potente della sua reale condizione sociale. I dati, le statistiche parlano chiaro e dicono che i lavoratori hanno perso nel conflitto di classe che continua a essere in corso, seppure negato dalla politica e da tanta parte della cultura.

 

I lavoratori italiani pagano, in questa realtà, un prezzo assai alto e un impoverimento intollerabile. Il sindacato dovrebbe essere prima di tutto un’autorità salariale. Negli ultimi trent’anni, non lo è stato più. Ogni discorso sul sindacato confederale, un discorso ormai irrinviabile, dovrebbe cominciare da qua, da questo smacco. I dati dell’Ocse sono implacabili: l’Italia è l’unico paese europeo nel quale i salari negli ultimi 30 anni, dal 1990 al 2020, sono diminuiti; nello stesso periodo in Germania sono aumentati del 33,7%, in Francia del 31%. In Italia, i salari sono diminuiti del 2,90%. È accaduto anche nel decennio più recente, dal 2009 al 2019, quando i salari sono diminuiti nei tagli del 2%, mentre in Germania sono aumentati dell’11% e in Francia del 7%. Nella pandemia, i salari perdono in pressoché tutti i paesi europei, ma in Italia di più. In Francia, per esempio, perdono il 3,2%; in Italia, il 6%. Nessuno dice che questo esito disastroso per i lavoratori italiani è iscritto nelle caratteristiche della nostra struttura produttiva. Gli anni 70 hanno dimostrato il contrario. Sul banco degli accusati, per i lavoratori e per chi è interessato alla giustizia sociale, stanno i protagonisti sociali e politici nella formazione delle scelte del Paese.

 

Per la sinistra politico-istituzionale, il verdetto è implacabile e ora lo certifica anche il voto. Il voto delle ultime amministrative, anche omettendo l’aspetto peraltro fondamentale del non-voto, lo dice chiaramente. È stato studiato questo voto nelle sue articolazioni sociali, e quello operaio ha destato una qualche sorpresa, seppure largamente ingiustificata. La perdita di salario ha votato. Si scopre così che il partito più votato dagli operai è la Lega, che raggiunge il 27%. Nel Pd prende l’8,2% (il 25,5% tra gli imprenditori – e va detto! – il 30% tra gli studenti). Surclassato anche da Fratelli d’Italia, dove è dato al 17,7%. La Lega da sola è accreditata nel voto operaio a più del doppio della somma di quello ottenuto da tutte le formazioni delle sinistre presenti nelle istituzioni: il 27,8% contro il 12,4%. Dunque, la sinistra politica è stata pressocché espulsa dal suo bacino elettorale tradizionale, popolare e di classe. Lì, i suoi voti vanno giù come il salario per i lavoratori. C’è una relazione tra i due fenomeni? Sì, c’è.

 

Abbandonato dalla sinistra, il mondo del lavoro è restato nudo di fronte all’impresa e senza protezione di fronte a quelle che sono state lasciate diventare “le leggi del mercato”. Abbandonati dalla sinistra istituzionale, gli operai l’hanno a loro volta abbandonata. Uno studio del 2018 della Cgil, effettuato tra i suoi iscritti, ha rivelato che il 30% votava il Movimento 5Stelle e il 18% la Lega. Si poteva quindi immaginare cosa stava accadendo nella grande massa dei lavoratori. Se espelli dalla politica (e anche dal sindacato?) la lotta di classe, il conflitto verticale tra lavoro e capitale, allora si afferma in sua sostituzione una conflittualità orizzontale, dettata dal timore di una concorrenza che appare minacciosa nel mercato del lavoro, e dettata dalla paura di quel futuro che era stato il luogo della speranza concreta, che si era venuto trasformando in una fonte di preoccupazione, quando non in una minaccia. Il voto lo registra con lo spostamento dalla sinistra alla protesta o al rancore.

 

Per questo non convincono le mozioni ideologiche e politiche che emergono anche all’interno di quel mondo rifiutato al fine di rimettere il lavoro dentro le sue politiche, anche per riformarle, senza però fare i conti fino in fondo con la materialità che caratterizza ora quel mondo, qui e ora, dentro lo scontro di classe rovesciato che i lavoratori vivono. Le coraggiose esperienze di lotta, le importanti azioni di resistenza e di contrasto nei confronti della tendenza prevalente sui vecchi come sui nuovi terreni di scontro, nei vari campi in cui è destrutturato il lavoro, sono tutto ciò che esce da questa perdente e disastrosa realtà che la dinamica sociale illustra; sono quel che consente di sperare in una possibile ripresa di un conflitto capace di rovesciare l’attuale dinamica salariale. Ma chi la vuole rovesciare? Chi oggi propone l’apertura di un conflitto generale per una redistribuzione del reddito tra salario, profitto e rendita? Chi propone un consistente e generalizzato aumento delle retribuzioni, partendo dal risarcimento a loro dovuto? Chi propone un salario minimo adeguato e la qualificazione, invece che la mortificazione, del reddito di cittadinanza? Chi propone oggi la riduzione storicamente necessaria degli orari di lavoro? Hic Rhodus, hic salta.

Fausto Bertinotti

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