LA POLITICA, IL MOVIMENTO OPERAIO, LA CRISI DELLA DEMOCRAZIA di Fausto Bertinotti (UmbriaLeft, gennaio 2024) 

Siamo entrati in una fase di grandi sconvolgimenti. Il mondo sembrava in qualche modo assestarsi – drammaticamente, intendiamoci – sulla fine del ‘900, sulla sconfitta del movimento operaio, sconfitta storica, con il fallimento del grande tentativo rivoluzionario a Est e la sconfitta del movimento operaio a Ovest, che ha dato luogo alle basi politico-culturali per un certo tipo di globalizzazione: la globalizzazione capitalistica, che aveva l'ambizione di stabilizzare il mondo, fino a ipotizzare la fine della politica; un’idea secondo la quale la globalizzazione capitalistica si configurava come un tempo e un modo senza alternativa. Questa realtà che si produceva con la globalizzazione sembrava non solo egemonica, ma destinata a definire un assetto del mondo imperiale, con un dominio pressoché assoluto degli Stati Uniti d'America, i quali, di fronte alle minacce a questa illusione e presunzione di stabilizzazione – si pensi all'attentato alle Torri Gemelle – rispondeva con una teoria: quella della guerra preventiva, che poteva anche essere considerata la teoria della guerra permanente. In che senso, però? Nel senso che questa guerra era, essa stessa, interna a una teoria e illusione di stabilizzazione dell'egemonia capitalistica e imperialistica americana, con una crescita: gli apologeti della globalizzazione capitalistica la descrivevano come una specie di cornucopia, che avrebbe elargito le ricchezze prodotte fino agli angoli più remoti dell’umanità. È la teoria dello sgocciolamento: questa rivoluzione capitalistica produce molte ricchezze; queste ricchezze, naturalmente, nella prima fase, riguardano le popolazioni ricche e i Paesi ricchi, ma poi sgoccioleranno fino in fondo.

Questa tesi è stata così devastante, politicamente, da determinare, all'indomani della sconfitta del movimento operaio, la mutazione genetica delle sinistre in Europa, in Italia in particolare: una mutazione genetica per la quale queste sinistre, eredi della sconfitta della grande sinistra del movimento operaio, trasmigrano nel campo liberale, cioè entrano a far parte del concerto di forze apologetiche della globalizzazione capitalistica.

L'ultimo grande movimento che contesta questa tendenza è il movimento altromondista, in Europa. Sennonché anche questa ipotesi, già regressiva sul terreno della civiltà, non regge. Intendiamoci, in quel periodo il capitalismo fa una vera rivoluzione, che si riappropria di un termine che non dovrebbe essere usato così, perché il termine nel ‘900 faceva pensare e proponeva un cambio della società, cioè l'uscita dalla società capitalistica e la costruzione di un nuovo mondo e una nuova società. In questo caso, invece, siccome la rivoluzione capitalistica s’innesta sulla sconfitta del movimento operaio, la rivoluzione è appunto interna al capitalismo. È una rivoluzione tecnico-scientifica poderosa, imponente. Basti pensare, per farla breve, a dove siamo arrivati adesso: a parlare e a vivere il tempo dell'intelligenza artificiale. Basterebbe questo per dare conto della potenza di questa rivoluzione capitalistica.

Però è un gigante dai piedi di argilla: potentissima sul terreno tecnico-scientifico e forte perché aveva sconfitto il suo avversario storico, che proponeva l'uscita dal capitalismo; ma questo eccesso di forza l'ha perduto perché, non avendo gli anticorpi, questa macchina è andata avanti fin dove? Fino alla produzione sistematica di crisi. Il capitalismo finanziario globale, oltre a essere incompatibile con la democrazia, genera crisi. Genera crisi continuamente, una sull'altra, non se ne esce mai. È una crisi permanente, si può dire.

Cosicché la stessa globalizzazione capitalistica finisce la fase ascendente e comincia a mettere in evidenza, anche attraverso queste crisi, una più profonda instabilità, un’instabilità geopolitica. L'idea secondo cui il capitalismo finanziario globale avrebbe accompagnato la globalizzazione, estendendosi su tutto il mondo, si spezza, si producono delle linee di faglia nel mondo e nasce una condizione policentrica, che però non è virtuosa. Non è una condizione policentrica in cui le diverse aree del mondo competono sul terreno del progresso, chiamiamolo così (il termine è del tutto impreciso e porta fuori strada, ma in prima approssimazione chiamiamolo così). Non competono sul progresso, competono per competere. Competono per realizzare una primazia nella guida della globalizzazione capitalistica. E in questa fase l'assetto mondiale cambia sulla base di una tendenza che mi pare evidente: lo spostamento da Ovest a Est della locomotiva del mondo. La Cina entra sulla scena prepotentemente e si produce la contesa, noi diciamo, tra l'Occidente e la Cina; in realtà, tra gli Stati Uniti d'America e la Cina.

Ma questo assetto così instabile genera conflitto, non solo crisi, ma genera guerre. Se ne accorgerà, voce isolata nel mondo, per primo e per un lungo periodo solo, il Pontefice, quando parla di una formula che rimane impressa, a definire la condizione attuale del mondo: “La terza guerra mondiale a pezzi”. La terza guerra mondiale a pezzi, che il Pontefice aveva individuato come una tendenza e un rischio, è diventata la realtà fattuale di tutti i giorni, fino a che le decine e decine, persino centinaia, di guerre che si producevano nel mondo si manifestano, però, in guerre che tutto il mondo coinvolgono, seppure indirettamente. Prima la guerra con l'aggressione della Russia in Ucraina e con la risposta dell'Ucraina e dell'Occidente, che sceglie la contesa, cioè sceglie di stare nel teatro di guerra che si era aperto, ipotizzando persino l'insensata tesi della vittoria, cioè della guerra fino in fondo. Non basta.

Insieme agli spostamenti e ai movimenti tellurici che investono il mondo, esplode una realtà che, oltre a essere simbolicamente forse la più significativa che si possa immaginare, almeno per noi – perché interviene nell'inizio della nostra storia politico-culturale, cioè in Palestina – è una vera e propria guerra, drammatica, che di nuovo, in una vicenda terribile come l'aggressione di Hamas a delle realtà interne allo Stato di Israele, vede l'Occidente militare addirittura a favore della posizione espressa da un governo come quello di Netanyahu, indifendibile da ogni punto di vista; un governo di aggressione, che aveva covato nei decenni precedenti, con l'impedimento a qualunque avanzamento verso l'ipotesi dei due Stati per due popoli, con la sistematica pressione dei coloni a sradicare i palestinesi dalla loro terra di Palestina. L'Occidente di nuovo compie la stessa operazione che aveva compiuto sull'Ucraina: invece di scegliere l'idea del negoziato – sto parlando sul terreno squisitamente politico – sceglie la via della guerra.

Questa condizione mette all'ordine del giorno del nostro tempo il tema della pace. Naturalmente, mi si può dire che il tema della pace è sempre all'ordine del giorno. Questo è vero, ovviamente, ma qui ha una pregnanza politica: la contesa tra pace e guerra non solo è eminentemente politica, ma influenza il corso della storia. Influenzerà il corso della storia. Cioè, la guerra è tornata e, sulla scia precisamente dell'abbrivio che le aveva dato la teoria imperiale della guerra permanente, diventa l'espressione di una volontà di dominio nella contesa, perché nascono diverse propensioni nazionalistiche e imperiali. In questa situazione d’instabilità, non ci sono forze istituzionali e politiche nel mondo capaci di governare le contese e farle uscire dal terreno di guerra per entrare in quello della pace, condizione che, seppure drammaticamente, viveva persino in quello che è stato chiamato “l'equilibrio del terrore”, il pericolo della guerra atomica tra i due blocchi contrapposti. I due blocchi contrapposti – anche per quello che l'ONU riusciva ancora a esprimere, dentro e fuori le Nazioni Unite – le due grandi potenze, alla fine, seppure drammaticamente, erano in grado in qualche modo di ordinare l'uscita dal conflitto. Questa condizione non c'è più. Non c'è più né una potenza, né un'istituzione, né una politica in grado di evitare che il conflitto precipiti nella guerra e, poi, uscire rapidamente dal tempo della guerra per andare verso il tempo della coesistenza e della pace. Dunque, una crisi della politica.

Questa crisi della politica mette in campo un'altra crisi potente – naturalmente, so che se ne parla da secoli – che è la crisi dell'Occidente. E qui veniamo direttamente a noi. So che se ne è parlato in altri tempi, sono stati scritti dei libri addirittura, c'è stato un tempo in cui il tema della crisi dell'Occidente era diventato di moda, ma adesso è proprio sul terreno. Ed è una vera e propria crisi di civiltà, secondo me. Questo è il punto drammatico. L'Occidente, che era questa realtà complessa e contraddittoria, per cui si parla e si è parlato di Occidente in termini apologetici, ma in realtà si voleva parlare del capitalismo in Occidente; l'Occidente era un termine per nascondere la natura di modello sociale che si esprimeva in questo campo. Si sarebbe dovuto dire l'Occidente capitalistico, per descrivere più propriamente una realtà; adesso, questo Occidente del capitalismo finanziario globale è in una crisi di civiltà. Cosa vuol dire? Vuol dire che le forze dominanti comandano, fanno funzionare, più male che bene, l'economia capitalistica, perché essa stessa approda di crisi in crisi, ma non è in grado più di esprimere un’idea di modello economico, sociale e civile che si offra al mondo come una possibilità di emancipazione, di liberazione. Anche quando questo avveniva su un terreno totalmente falso e ipocrita, l'Occidente, prima di questa crisi, ci aveva provato.

Si pensi al modello americano, la famosa via americana al successo, che si proponeva come una weltanschauung. Sopra il modello economico veniva proposta un’idealizzazione di questo modello, come merce di esportazione. Oggi il capitalismo è nudo. È nudo perché non ha niente da proporre, altro che se medesimo, non ha un orizzonte, non consente una speranza. Lo si vede nei rapporti con le nuove generazioni, soprattutto: nuove generazioni che sono costrette in un ambito di difficoltà non solo nella vita quotidiana, ma nel rapporto con il lavoro e con la possibilità di crescita personale e generazionale. La speranza è pregiudicata da questo tipo di sviluppo – sviluppo si fa per dire – che chiede loro semplicemente di aderire. Mi viene in mente la formula che i Gesuiti usavano per parlare della loro fede e della religione: perinde ac cadaver, cioè una fedeltà che fa sì che tu aderisca alla realtà come se fossi un cadavere. Questo perinde ac cadaver sembra essere il motto blasfemo di questo nuovo capitalismo, che parla alle nuove generazioni non in nome di un sogno, seppure traviato, come quello precedente, ma in nome semplicemente di un cinico realismo: non c'è altro da fare. Questo spiega molto dell'instabilità, dell'incertezza e della crisi della politica.

Qui ci sono due crisi, che sono parallele: la crisi della democrazia e quella della politica. Anzi, c'è un terzo incomodo: la crisi della sinistra. Queste tre si tengono, perché la crisi della sinistra fa sì che una parte importante delle popolazioni esca dal recinto della democrazia. Basti vedere il non voto. La sinistra è stata una mobilitazione di energie, che ha determinato nello scontro e nel conflitto con le forze borghesi, o le forze moderate, che dir si voglia, la possibilità di rendere il popolo protagonista della contesa politica. La scomparsa della sinistra politica ha messo fuori dal recinto della democrazia una parte del popolo. La democrazia, peraltro, vive una crisi interna, propria, perché la democrazia rappresentativa non tiene più in nessuna parte dell'Occidente. Ormai tutti spiegano che siamo in società oligarchiche, in cui nuclei ristretti di ricchi e potenti governano queste società, aiutandosi e appoggiandosi su delle tecnocrazie.

L'Europa ha tradito la sua vocazione fin dall'inizio: invece che costituirsi come una grande area governata da una democrazia costituzionale, è un'area di mercato economica anche potente, ma governata sostanzialmente secondo un modello oligarchico, in cui i governi dei singoli Paesi concorrono a formare questa oligarchia delegata. E nei singoli Paesi – arriviamo alla fine all'Italia – la democrazia rappresentativa è messa in scacco, perché il potere è andato concentrandosi sempre di più sul governo e i parlamenti sono stati svuotati di ogni capacità politica reale, quindi si è prodotta una desertificazione della politica e della democrazia. Qui stiamo: siamo in un punto drammatico, che sarebbe senza speranza, se non fossimo in grado, invece, di leggere i fili d'erba che in questo deserto emergono, che sono la realtà da indagare, anche per far rinascere la politica. I fili d'erba.

Per questo sono molto importanti le esperienze territoriali, molto importanti, anche quando sono piccole, ma sono significative di una possibilità e di un’esigenza. Contemporaneamente, guardare alle esperienze sociali, alla ripresa dei conflitti. Adesso siamo tutti colpiti dalla potenza della ripresa del conflitto negli Stati Uniti d'America, che parlano di un messaggio davvero di rottura di questa stabilizzazione a guida capitalistica, oppressivamente capitalistica. Prima i grandi movimenti, il “Black Lives Matter”, il “Me too” e adesso il conflitto, e poi direttamente il conflitto operaio, tanto che persino politicamente rinascono delle riflessioni importanti. Abbiamo parlato recentemente del libro di Sanders, che parla di questa nuova sinistra che si affaccia.

In Europa le cose sono meno promettenti, sebbene la pacificazione non ci sia. Abbiamo detto insieme, in altre occasioni, che questo è il tempo della rivolta. Io penso che sia così. Perché è il tempo della rivolta? Perché la rivolta sostituisce la politica, in un certo senso. La politica del movimento operaio era capace di unificare i conflitti e proiettarli nel futuro; faceva queste due cose, la politica del movimento operaio. Tesseva le relazioni, per cui nessuno si sentiva solo nel conflitto e, contemporaneamente, le proiettava in un futuro, che era appunto l'obiettivo di una nuova società.

In assenza di questo, qual è l'elemento che produce unificazione? Guardiamo la realtà, parliamo ancora degli Stati Uniti America, ma potremmo prendere la Francia dei gilet jaunes, prima, e poi degli otto o nove scioperi generali contro la legge sull’aumento delle pensioni, che ha messo in luce un conflitto sul lavoro e sulla vita, un conflitto radicale, che ha fatto questa operazione: ha aperto lo scontro sul futuro. “Lavorare meno, lavorare tutti” non casualmente sembrava rientrare nel circuito di questa lotta. E per chi chiedeva ai manifestanti: “Ma perché volete andare in pensione prima e invece non gradite lavorare?”, la risposta è stata: “Perché questo lavoro è il vostro, perché questo è un lavoro di spoliazione, di oppressione e noi vogliamo liberarci non dal lavoro, ma da questo lavoro”, che porta così il segno del dominio capitalistico. In quel caso, i singoli conflitti vengono rimessi in un alveo. Negli Stati Uniti d'America è stato così. Sappiamo tutti che Trump aveva vinto guadagnando il consenso dei lavoratori della “cintura della ruggine”. Non è che questo, adesso, risolva le elezioni americane, ma quegli stessi lavoratori riguadagnano la loro autonomia sullo sciopero. Non ce la fanno ancora, credo, a essere antagonisti politici e culturali del trumpismo, ma fanno valere i loro bisogni e le loro rivendicazioni in totale autonomia, cioè rifiutano la logica della compatibilità, che è la prima delle prigioni.

La prima delle prigioni è l'accettazione delle compatibilità. La rottura delle compatibilità è resa possibile perché quella lotta operaia è stata in qualche modo costruita dalle rotture culturali e sociali provocate da movimenti, che pure erano lontani – basti pensare al “Me too” – ma mettevano in discussione l'ordine costituito. Cioè, si produceva una specie di contagio. In questo contagio, allora, rientra anche la lotta che poteva sembrare la più desueta. Diciamo la verità, ci hanno spiegato per venticinque anni che il conflitto si può fare, è possibile che si agisca, ma un conflitto che non può essere agito è quell'operaio perché, ci spiega la sociologia apologetica, è cambiato tutto, è cambiata l'organizzazione del lavoro, sono cambiate le tecnologie, è cambiato il lavoro, è cambiata la soggettività dei lavoratori, quindi quel conflitto è impossibile. La smentita viene nel cuore del capitalismo, cioè a Detroit e nell'industria più condannata da questa lettura all'impossibilità, l'industria dell'auto, con delle rivendicazioni che veramente stupiscono: l'aumento del 40% delle retribuzioni, altro che “pochi, maledetti e subito”! Tanti, magari “maledetti”, ma subito. Insisto, sono importanti per la rottura della prigione, la prigione politico-mentale del “non c'è alternativa, non c'è possibilità che la lotta paghi, non c'è possibilità di far valere le nostre ragioni contro questa macchina totalizzante, che è il nuovo capitalismo”. Penso che da qui rinasca la possibilità di costruire un'alternativa.

Siamo vicinissimi alle elezioni europee, che saranno certo un elemento di contesa politica; ma dubito che, se saranno affrontate sul terreno della politique politicienne, possano darci qualche incoraggiamento, che invece va trovato proprio sul terreno della pratica sociale. Come si è visto, anche la politicizzazione ormai passa di qui. Per questa ragione un lavoro come quello di questi tre anni a me pare significativo, non lo dico solo per vicinanza e per amicizia; ma penso proprio che questo lavoro, che ha una dimensione territoriale ed esplora tutti i campi del conflitto sociale, politico, culturale, sia una cosa preziosa.

Qualche tempo fa, mi è toccato andare a parlare con degli studenti che, a Roma, avevano fatto le occupazioni, su cui sta precipitando una repressione francamente scandalosa. La conversazione è stata molto bella, molto intensa. Naturalmente, so bene che sono minoranze attive, ma la passione, l'interesse e la curiosità di questi giovani, francamente, colpivano. Ma colpiva ancora di più la risposta alla mia domanda: “Ma qualche esponente politico e sindacale è venuto a trovarvi, in queste 7-8 giorni di occupazione, giorno e notte, della vostra scuola?”, la risposta è stata: “No”. In questo semplice elemento si vede che la politica è diventata un’esercitazione, lontana dai bisogni e dalle attese della gente. Le attese e i bisogni delle popolazioni, su tutti i terreni, si possono manifestare ormai solo direttamente. Questo è il tempo del conflitto.

 

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