Perugina: Una grande storia industriale (Seconda parte)
Nasce una multinazionale
Il 15 dicembre del 1969 avvenne la fusione, per incorporazione, della Buitoni con la Perugina: venne creata l’IBP- Industrie Buitoni Perugina che nel 1972 fu quotata in Borsa. La società con sede a Perugia comprendeva: 6 stabilimenti in Italia, 3 in Francia, 2 in America (Stati Uniti e Brasile), un fatturato di 135 miliardi di lire e 7.269 dipendenti, solo in Italia 6.634.
Un fatto fondamentale e condizionante per gli sviluppi futuri. Alcuni erano scettici nei confronti del progetto IBP, altri lo ritenevano un errore strategico, ma la maggioranza del corpo aziendale lo condivise insieme al sindacato e alla comunità cittadina. Anche oggi, dopo cinquanta anni, i giudizi restano divergenti. Una tesi ritiene la fusione della Perugina con la Buitoni e le scelte successive di politica aziendale l’inizio della parabola discendente che ha portato alla sua vendita, un’altra la considera una scommessa molto innovativa, in un periodo difficile, contrastata e poi bloccata: riuscita solo in parte. L’azienda venne riorganizzata all’avanguardia, guidata da un gruppo dirigente capace, da politiche produttive e commerciali rinnovate ed espansive. Negli anni settanta si sperimentarono, anche alla Perugina, sia per il rinnovo dei contratti nazionali che per le piattaforme aziendali, forme di lotta molto dure che vennero chiamate a gatto selvatico e duravano tutto il giorno. Nel momento più caldo si arrivò, per alcune ore, all’occupazione dello stabilimento.
Ma ci furono, anche, errori nelle scelte aziendali e nel sindacato che peseranno negli anni successivi. Il sindacato, per diversi motivi, costrinse l’azienda ad accettare la Linearizzazione della produzione, studiata per superare il periodo della curva bassa della produzione e garantire l’occupazione tutto l’anno. Inoltre fu accompagnata dalla richiesta di superare la stagionalità con l’assunzione a tempo indeterminato di molti stagionali, senza che si cogliessero i primi segnali di una grave crisi economica nazionale e mondiale: quella petrolifera e derivante dall’aumento del costo delle materie prime. L’azienda, con intuizione e coraggio, in quel periodo, scelse di realizzare un progetto di aggressione dei mercati esteri sia con l’allargamento della società in Italia sia con la costituzione di consociate estere. Il punto debole dell’operazione fu di usare finanziamenti bancari. In questo clima di lotte, forte democrazia e tensione politica si consolidarono in fabbrica alcuni partiti politici. La loro azione sarà decisiva nel creare una vera coscienza di classe, nell’individuare attivisti, nel cercare momenti di elaborazione, confronto e azione comune.
Ma si verificarono contrasti e discussioni sia all’interno del Consiglio di fabbrica che nei partiti politici poiché vi furono, anche alla Perugina, dei riflessi di Pan sindacalismo. Le difficoltà incontrate dall’IBP, a seguito della crisi, saranno superate solo molti anni dopo. Intanto l’amministratore delegato venne rimosso e gli successe Bruno Buitoni, che non aveva mai approvato le decisioni del cugino, con una gestione più conservatrice: arrivò a minacciare, per il Gruppo, 1.270 licenziamenti.
Dopo innumerevoli scioperi, manifestazioni e cortei nella città, una Conferenza sindacale di produzione, un Convegno nazionale promosso della Sezione del Pci, tenutisi ambedue a Perugia, all’insegna del Cioccolato non basta più, bisogna allargare la produzione, la vertenza si risolse con impegni precisi: uscita incentivata di lavoratori, prepensionamenti e cassa integrazione a rotazione che coinvolse, per la prima volta, anche gli impiegati e quadri. Comunque in quegli anni si ottenne sia il nuovo reparto dei biscotti a San Sisto – Le Ore liete – sia i Lievitati a Castiglione del Lago.
Il limite politico e sindacale strategico fu quello di non aver sostenuto, con forza, la ricapitalizzazione dell’azienda con l’entrata di nuovi partner e la modifica sostanziale dell’assetto proprietario: incerto e conflittuale. L’IBP nel 1980 aveva in carico in Italia 5.376 dipendenti e solo a Perugia 2.685 e un fatturato di 603 miliardi (Italia e consociate estere). La holding accumulava ogni anno miliardi di debiti che costrinsero la famiglia Buitoni a vendere, il 2 febbraio 1985, alla Cir di Carlo De Benedetti. Ma la Perugina, però ha continuato sempre a produrre utili: al 31-12-1984 il fatturato era di oltre mille miliardi e 1.879 lavoratori.
Una caratteristica importante del movimento politico e sindacale è stato il legame stretto con la città e le sue istituzioni, tra cui l’Università. Ciò fu facilitato dalla presenza di alcuni lavoratori che hanno ricoperto incarichi importanti sia nel Consiglio comunale e provinciale che in quello regionale. La Perugina è stata sempre al centro di confronti nelle sedi pubbliche tra partiti, sindacato e associazioni cittadine. Anche l’azienda ha mantenuto rapporti corretti e di collaborazione con le istituzioni, inoltre in tanti quartieri e paesi periferici, per la presenza di operai e impiegati, varie volte in assemblea si è discusso della Perugina: problemi dello sviluppo e dell’occupazione.
Si cambia padrone e ragione sociale
Il nuovo proprietario industriale-finanziere, con interessi in vari settori, venne accolto sia dalle istituzioni locali che dai sindacati anche troppo positivamente: giudicato come un salvatore dell’azienda. Il tempo darà ragione a tutti coloro che espressero molti dubbi al riguardo. Dopo il cambio della ragione sociale da Ibp a Buitoni Spa, la ricapitalizzazione e l’acquisizione di altri marchi, De Benedetti si pose un progetto ambizioso: creare una grande multinazionale nel settore dolciario-alimentare in grado di competere con i gruppi europei e mondiali. I suoi interessi si rivolsero prima di tutto alla Sme società alimentare pubblica del gruppo Iri. Venne firmato un accordo di massima, ma l’opposizione del governo Craxi e la formazione di una cordata di imprenditori fece fallire l’operazione.
Comincia un’altra storia
La Buitoni Spa venne ceduta, allora, nel marzo 1988 alla multinazionale svizzera Nestlè. La Perugina entrò a far parte di un gruppo industriale e finanziario a livello globale con sede a Vevey, in Svizzera, perse la sua ragione sociale e Perugia la sua centralità. Tutti i settori produttivi e gli uffici furono sottoposti ad analisi e integrati alla nuova realtà. Nonostante scontri con la proprietà, lotte anche dure, l’omologazione al mondo Nestlè non si è fermata. L’obiettivo prevedeva che la Perugina doveva essere ridimensionata perché troppo grande rispetto agli standard delle altre fabbriche del gruppo e perdere le sue caratteristiche peculiari. Un processo non indolore, anche nei lavoratori, date le diverse strategie sindacali e il rapporto da adottare con l’azienda. Persistendo una grave inadeguatezza nella direzione politica della Rsa di fabbrica, si produsse, inevitabilmente, negli anni ‘90 una spaccatura con la formazione di un gruppo di delegati ribelli e la costituzione del sindacato autonomo Sual. Ambedue le strutture reclamavano un cambio di passo nei confronti dell’azienda. I promotori furono alcuni che erano stati tra i protagonisti del Consiglio di fabbrica degli anni’70. Convergenze sostanziali non furono trovate. In seguito, con le lotte si è ottenuto che la Nestlè riconoscesse alla Perugina il ruolo di capofila del cioccolato in Europa: purtroppo per un periodo limitato.
Infatti nel piano di ristrutturazione nazionale presentato dalla multinazionale nel‘95, furono previsti sia la riduzione di personale sia il ridimensionamento e l’allineamento alle altre fabbriche. Venne deciso unitariamente di iniziare una lotta dura ma, nonostante il supporto dei partiti e delle istituzioni, il piano andò avanti. La Rsu di fabbrica si dimostrò, poi, disposta a trattare. Quando, quasi a sorpresa, il sindacato firmò a Milano un’ipotesi di accordo con la Nestlè, nel quale veniva accettato il piano aziendale, subito si formò un dissenso politico netto. La stragrande maggioranza dei lavoratori ritenne la decisione un grave errore, compiuto per impreparazione e valutazioni non esatte. Di fronte al malumore delle assemblee, un gruppo di lavoratori ne propose la bocciatura attraverso un referendum: l’accordo fu respinto. In quella occasione si scontrarono diverse strategie. Da una parte fu la dimostrazione del fallimento della politica di concertazione sostenuta anche in Umbria, dall’altra la lotta dura, forse, aveva resuscitato un sussulto di storia degli anni settanta, ma era stata anche il banco di prova del nuovo sistema indotto dal liberismo e dalla globalizzazione. I lavoratori accettavano la sfida, però intendevano dirigere e non subire i nuovi processi produttivi. Il nuovo accordo riuscì a migliorare solo alcuni aspetti importanti, compresi gli incentivi salariali. Fra le centinaia di lavoratori che uscirono dall’azienda ci furono coloro che appartenevano ad una storia, alle lotte sindacali, alla cultura della propria fabbrica, al collegamento con il territorio ed erano iscritti a partiti politici.
La normalizzazione si è completata negli anni duemila. Gradualmente la ex Perugina, perdendo la caratteristica di una fabbrica completa di tutte le sue funzioni, fu trasformata in una Unità produttiva periferica.
Un ridimensionamento continuo
La Nestlè ha provveduto, anche se lentamente, alla ristrutturazione, al cambiamento del modulo produttivo, all’utilizzo degli orari e alla modifica dell’organizzazione del lavoro. Ma, sopratutto, ha venduto marchi famosi ed importanti: i biscotti (Ore Liete), la Rossana, la Cinzia, il Pomona, il Torrone Nigro, ha esternalizzato il reparto Strenne e dismesso altri prodotti: Tre Re, Dimmi di Sì e Canasta. Ne sono rimasti solo pochi in produzione.
Tra il 2017-2018 c’è stato un lungo confronto tra azienda e sindacato per il rinnovo dell’accordo aziendale, con pochissime lotte o scontri. In questi due anni la città è rimasta pressoché indifferente alle vicende aziendali, essendo stata coinvolta solo marginalmente. Le lungaggini della vertenza, gli infiniti incontri sindacati-azienda sia in sede locale che nazionale, il confronto svoltosi essenzialmente tra comunicati stampa reciproci hanno tolto centralità alle istituzioni e alla città. La logica e una visione nazionale ha condizionato gli interessi della ex Perugina. Il sindacato nel 2019 ha accettato il piano di ristrutturazione presentato dalla Nestlè. Degli 810 lavoratori fissi sono rimasti 450 circa, 150 trasformati da full time a part time, oltre 200 licenziamenti: all’occorrenza alcuni stagionali. In cambio, un piano di investimenti nella pubblicità e nel marketing. Una pesante momento di arretramento per i lavoratori e la comunità. Una data storica nella vita dell’ex Perugina, sia sul piano delle prospettive produttive che nelle relazioni industriali. Una accordo comunicato alle assemblee, ma non sottoposto a referendum, che ha posto alcune questioni non più rimandabili: gestione delle vertenze, democrazia di fabbrica, rappresentanza di tutti, formazione e approvazione delle piattaforme sindacali, degli accordi (referendum), revisione della linea strategica nei confronti delle multinazionali. Oggi, purtroppo, di fronte ad una vertenza importante e decisiva, senza lotte significative, pur in presenza di posizioni differenti, in soggetti diversi, prevale la voce dell’azienda. Infatti è ritenuta da tutti un bene comune, anche se propone solo investimenti in marketing. Queste sono differenze sostanziali rispetto al passato. Purtroppo non saranno i nuovi cioccolatini granellati, o il rifacimento del KitKat e neppure il Bacio rosa, tutti di scarso tonnellaggio e di produzione meccanizzata, a cambiare il futuro di questa azienda. La Perugina, diventata Nestlè, per centodieci anni orgoglio di una città che si è identificata con la sua storia e cultura, in cui generazioni di concittadini hanno creduto e collaborato al suo sviluppo, non rappresenta più la centralità laboriosa di Perugia. Per molte persone, in tanti anni, una grande scuola di vita, di emancipazione, di progresso sociale, di elevazione culturale, di appartenenza ad una comunità e ad un grande sogno. Nel corso degli anni dal movimento sono emersi politici, sindacalisti, quadri aziendali, manager, pittori, artisti, arbitri di calcio, maestri in varie discipline sportive, scrittori, amministratori locali, imprenditori e artigiani. Oggi, ai piedi della città, al posto della vecchia fabbrica vi sono palazzoni brutti e aridi e, incastrata fra di loro, rimane solo la ciminiera a ricordo forte e triste di una storia gloriosa, ma passata.
Ha creato forte nostalgia, simpatia e commozione fra la popolazione la riapertura dei vecchi locali, rimasti chiusi ed integri per oltre un secolo, situati nel centro storico, dove la Perugina è nata e si è sviluppata.
Tutti hanno auspicato che il Comune li possa trasformare in un museo cittadino a testimonianza di un intreccio con la storia della città. Lo stabilimento di San Sisto è un sito industriale, in parte svuotato, efficiente che, in un clima oppressivo e conservatore, genera un’alta produttività e molto sfruttamento: pochi prodotti e poco personale, in linea con la politica grigia, senza anima delle multinazionali.
Giuseppe Mattioli
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