Patrick George Zaki, era uno studente egiziano di 28 anni che viveva a Bologna e studiava all'Università di Bologna per un master. Impegnato per i diritti civili nel suo paese più di un anno fa, di ritorno in Egitto dall'Italia, è stato preso all’aeroporto del Cairo dalla polizia di Al Sisi. Da allora ha compiuto 30 anni in carcere e solo ora abbiamo saputo che la sua “colpa” è quella d’aver scritto un post in difesa della comunità copta egiziana.
Tempo fa ho sentito intervistare in televisione una di quelle persone che i sottotitoli definiscono “esperto di geopolitica”. Si arrampicava sugli specchi per tentare di non dire quello che realmente pensava di Patrick: che non ci conviene preoccuparci di lui. A un certo punto gli è pure sfuggito un “non è nemmeno italiano”.

E invece Patrick Zaki italiano lo è. Perché Bologna e altri comuni gli hanno dato la loro cittadinanza, perché il Parlamento ha votato per fargli avere la cittadinanza italiana. E, soprattutto, lo è perché è uno studente di una nostra università e gli studenti delle nostre università finché lo sono sono nostri. E le nostre università e il nostro Paese non possono e non devono comportarsi come hanno fatto la Gran Bretagna e l’Università di Cambridge con Giulio Regeni.
Sarebbe bene, quindi, che in Italia non chiudessimo il cuore a Patrick Zaki perché non ci conviene e non è nemmeno italiano non stancandoci di chiedere in tutti i modi la sua liberazione.

Così come dobbiamo impedire al virus del covid d'infettarci non dobbiamo consentire al virus dell’indifferenza di renderci indifferenti verso un giovane uomo che ha l'unica colpa d'impegnarsi a favore dei diritti umani nel suo paese ed ha bisogno di tutto il nostro sostegno per tornare libero, pure in Italia e nella sua Università di Bologna se lo vorrà.
Vanni Capoccia
 

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