Nella poesia latina sono frequenti gli squarci paesaggistici tra i versi di autori d’età augustea: chiunque abbia frequentato il liceo classico non potrà dimenticare la descrizione del monte Soratte coperto di neve in un’ode di Orazio. Il paesaggio è invernale, il luogo è la campagna sabina dove egli ha una villetta donatagli da Mecenate, braccio destro di Augusto. Il monte Soratte splendente di immacolata neve si staglia all’orizzonte, i ruscelli ghiacciati non scorrono più, il tempo sembra sospeso, quasi per incantesimo il paesaggio è senza vita, senza movimento, senza suono, senza colore, soltanto il candore della neve: 
«Vedi come si erge candido / d’alta neve il Soratte! I boschi al peso / non reggono, fiaccati, e per l’acuto /gelo si sono rappresi i fiumi» (Odi, 1, 9)
Il poeta esorta il giovane amico a scacciare il freddo ravvivando il fuoco, a versare senza risparmio il vino per aprire il cuore alla gioia, allontanare dall’anima ogni tristezza senza pensare a ciò che accadrà, e a dedicarsi alle gioie della giovinezza, agli amori e alle danze finché è lontana l’età della canizie: «Dissipa il freddo deponendo legna /sul focolare, in abbondanza, e mesci /da un’anfora sabina a doppia ansa, / o Taliarco, vino di quattr’anni! Lascia il resto agli dei […] Cosa accadrà domani, tu non chiedere. / Se un altro giorno ti darà la Sorte, / ascrivilo a guadagno e non spregiare, /ora che sei giovane, le danze e i dolci amori, / mentre è lontano dalla tua verde età il tedio della vecchiaia». (Odi, 1, 9)
Un inizio lirico con un cielo notturno illuminato da luna e stelle è descritto per rievocare il giuramento d’amore eterno che la donna, una tale Neera, non ha rispettato: «Era notte, e nel cielo sereno splendeva la luna / tra le stelle minori, /e tu al mio insistente chiedere giuravi / - stringendomi con morbide braccia più strettamente/ di come l’edera si avvince a un’alta quercia -/che […] il nostro amore sarebbe stato reciproco». (Epodi, 15).
Ma anche in un altro incipit di una poesia in cui è descritto il vento freddo che soffiava a Filippi mentre era nell’esercito di Ottaviano, è uno spunto per poi invitare i compagni a cacciar via la tristezza e a rallegrare l’animo in un convito: 
«Un’orrida tempesta ha serrato il cielo, e piogge / e nevi lo fanno precipitare; ora il mare e le selve / risuonano del tracio Aquilone». (Epodi, 13). 

L’altro poeta di età augustea è Virgilio che nelle sue opere ci dona descrizioni di paesaggi ameni o orridi che corrispondono talvolta a stati d’animo. Nelle “Bucoliche” canta il dolore dei contadini per il distacco dai propri campi dopo le espropriazioni volute da Augusto, l’intensa partecipazione ai riti e ai cicli della natura, l’amore per gli animali, gli affetti familiari, le sofferenze amorose. Incantevole la pennellata di un tramonto autunnale vissuto nella soave mestizia della campagna, quando avanzano le ombre della sera: 
«E già lontano fumano i tetti dei casolari / e più lunghe dall’alto dei monti discendono le ombre. (Bucoliche, 1) 
Altri versi cantano il brillare della primavera, i rigogliosi prati fioriti lungo le rive dei fiumi: 
«Qui la primavera è di porpora, qui intorno ai fiumi / la terra effonde fiori variopinti, il bianco pioppo / sovrasta la grotta e le flessibili viti intrecciano pergolati».  (Bucoliche, 9).
Nelle Georgiche, opera scritta in appoggio ai progetti di Augusto per un ritorno ai valori più autentici della tradizione romana, a una civiltà contadina che si basasse sulla frugalità, laboriosità, religiosità dopo le devastazioni delle guerre civili, Virgilio mostra maggior interesse per la voce più intima della natura che per le finalità didascaliche dell’opera. I suoi versi si rivelano un canto della terra e del lavoro contadino nella sua dura realtà quotidiana con squarci paesaggistici come la descrizione dello scatenarsi di un temporale quando la Natura ne mostra i segni: il rumoreggiare del mare ed il fragore dei tuoni: 
«Subito, al sorgere dei venti, i flutti marini / agitati cominciano a gonfiarsi, e sugli alti monti si ode / un secco fragore, o il lido rumoreggia lontano / sconvolto, e si fa più spesso il mormorio dei boschi. / Ormai a stento le curve carene resistono alle onde / quando dall’alto mare rivolano indietro i veloci smerghi, / e portano strida alle rive, e le folaghe marine / scherzano all’asciutto, l’airone abbandona le note paludi / e vola sopra le alte nubi» (Georgiche, 1).
Per introdurre quale sia il tempo adatto per arare il terreno il poeta ci offre un’immagine poetica: 
«Al ritorno della primavera, quando sui candidi monti / la neve si scioglie e le zolle si fanno molli ammorbidite dallo Zefiro, allora è il momento di mette in moto l’aratro» (Georgiche 1).
Nelle descrizioni paesaggistiche dell’Eneide, troviamo accenni al paesaggio e splendidi affreschi naturalistici nel III libro del poema. Le immagini di tempesta sul mare sono numerose. Durante la navigazione di Enea diretto in Italia, grandi nubi nere oscurano il giorno, fulmini squarciano il cielo: 
«Subito i venti sconvolgono il mare e alti si levano /i flutti; siamo dispersi e agitati dal vasto gorgo;/i nembi avvolsero il giorno, e un’umida notte ci tolse / il cielo; s’infittiscono, /squarciate le nubi, i fulmini. /Usciamo sbalzati dalla rotta, ed erriamo sulle cieche onde». 
Quando la flotta troiana salpa dall’Epiro diretto alla costa dell’Italia, dopo una giornata di navigazione gli scampati alla distruzione della loro città approdano su una spiaggia:
«il sole frattanto cade e i monti s’oscurano d’ombra. Ci stendiamo vicino all’onda in grembo alla terra bramata /…/ Il sonno fluisce nelle membra stanche»
.
 È mezzanotte, il nocchiero Palinuro osserva tutte le stelle nel cielo per cogliere il momento favorevole alla navigazione. Quando vede tutto il cielo sereno muove la flotta. Ed ecco che già:
«l’Aurora rosseggia, fugate le stelle / quando vediamo lontani oscuri colli».
 Ciò che appare in lontananza è una terra collinosa, Acate l’avvista per primo e grida: è l’Italia. Dopo una sosta il viaggio riprende. Oltrepassato il golfo di Taranto si arriva allo stretto sconvolto dal ribollire delle acque: è il terribile regno di Scilla e Cariddi. Appare un paesaggio orrido in una atmosfera terrificante e da incubo: 
«l’Etna che tuona di orrende rovine / e talvolta vomita nel cielo una nera nube / fumante d’un turbine di pece e di ardenti faville, / e solleva globi di fiamme e lambisce le stelle /; talvolta scaglia eruttando rocce e divelte / viscere del monte e agglomera con un mugghio nell’aria / pietre liquefatte e ribolle dall’infimo fondo. I Troiani ignorano quale sia l’origine di quegli orrendi fragori: Nella notte, protetti dai boschi, sopportiamo tremendi / spettacoli, e non vediamo che causa produca il fragore. / Infatti non v’erano fuochi di astri, o aria lucente / di etere sidereo, ma nubi nel cielo oscuro, / e la notte tempestosa chiudeva la luna in un nembo». (Eneide, III)
Un altro suggestione emotiva nel VII libro la comunica la descrizione del paesaggio del Tevere che appare ad Enea: 
«Allora Enea dal mare scorge lontano / un ampio bosco. Nel mezzo il Tevere con amena corrente, / con rapidi vortici e biondo di molta sabbia, / sbocca nel mare. Variegati, intorno ed in alto, / uccelli avvezzi alle rive e all'alveo del fiume / carezzavano l'aria con il canto, e volavano per il bosco». 
L’eroe, turbato per la guerra che si prepara nel Lazio, stanco si addormenta: 
«Era notte, e un sonno profondo teneva per tutte le terre / le stanche creature, gli alati e gli armenti: / quando il padre Enea sulla riva sotto la gelida volta / dell’etere, con il cuore turbato dalla guerra funesta, / si adagiò lasciando fluire per le membra una tarda quiete»..(.
Non si può dimenticare nel libro IV il dolore di Dione che vede dopo una notte insonne allontanarsi sul mare la flotta di Enea, mentre 
,«l’Aurora cospargeva di nuova luce la terra e si allontanava dal cielo l’umida ombra».

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