di Isabella Rossi

Ieri a Roma sono tornate le donne e gli uomini di “Se non ora quando”. Con “Se non le donne, chi? Mai più contro di noi, mai più senza di noi” il movimento che il 13 febbraio scorso, aveva portato in piazza oltre un milione di persone, detta una priorità democratica al paese che vuole continuare ad essere europeo “costi quello che costi”. La questione della partecipazione femminile nelle scelte politiche che, soprattutto ora, cambieranno profondamente la vita dei cittadini e delle cittadine italiane. "Quando una donna fa politica cambia la donna, quando tante donne fanno politica, cambia la politica. Noi vogliamo riprenderci la politica", ha scandito ieri una voce dal palco di piazza del Popolo.

Quello che le donne dovranno cambiare, al posto dei politici operanti sinora, è un bollettino di guerra al genere femminile e "alla sua progenie" nel paese dove economia, società e cultura scontano una visione patriarcale e anziana con pesanti effetti sulla vita di tutti. A partire dai giovani. Tre milioni e mezzo di donne disoccupate, 800 mila licenziate, retribuzioni del 30 per cento più basse di quelle degli uomini, questi i numeri scanditi ai microfoni della manifestazione. Nonostante a laurearsi in Italia siano soprattutto le donne, in tempi e con risultati migliori, la loro precarizzazione è maggiore e la disoccupazione è sempre latente.

E anche in Umbria la crisi la stanno pagando le donne che hanno perso migliaia di posti di lavoro. Poco consola sapere che l’ingresso nel mondo del lavoro delle donne è conquista recente nei secoli di storia in cui la parola democrazia non comprendeva il genere femminile. Quello che spaventa è l’oggi ed il futuro che in Italia continua a fare cassa con il lavoro delle donne. Così come hanno pagato il loro essere donna in Italia l’elevato numero di anziane che recepiscono pensioni misere perché hanno accudito figli, nipoti e genitori.

Uno dei vulnus più dolorosi è, infatti, quella maternità senza diritti, che il sistema Italia poco tutela e per nulla finanzia. Maternità che il mondo del lavoro considera motivo di licenziamento presente o futuro. Partorire i figli degli altri è un “tradimento aziendale” ed i tempi e i modi lavoro in Italia continuano ad essere regolati non in base alla produttività ma secondo gli schemi della tradizione. E mentre la conciliazione è un progetto avveniristico che affascina qualche sparuto innovatore, con l’equiparazione dell’età pensionabile a quella degli uomini alle donne in Italia si chiede di rinunciare al riconoscimento dei sacrifici perpetrati per il lavoro di cura al quale sono state obbligate, perché senza alternative, continuando a pagare con altro lavoro le pensioni proprie, le meno onerose per le casse dello Stato, e quelle degli altri.

Sono stati in tutto centomila, tra cui donne delle istituzioni, della cultura e dei partiti a ribadire, in una nuvolosa giornata di dicembre, che la politica “senza donne per le donne” non vede il l’occupazione femminile come priorità. Non sono priorità l’ampliamento dell’offerta di asili pubblici, né tanto meno la lotta agli stereotipi che determinano le disparità ai danni delle donne in Italia. Nemmeno quando l’impresa femminile è più redditiva e duratura la donna è pari. Sono, infatti, spesso maggiori gli interessi da pagare per il credito concesso dalle banche se l’imprenditore è donna.

Al tetto di vetro in Italia si aggiunge un muro di Berlino presidiato da una vecchia guardia non solo prettamente politica. E chi difende l’emancipazione delle donne in Italia da sistemi di governance maschili, aboliti solo sulla carta? La risposta potrebbe essere amara. Forse per questo “Se non le donne chi” ha scandito ieri a chiare lettere che la condizione di milioni di donne e giovani in Italia non potrà cambiare senza un impegno politico forte delle donne. Se non ora quando?
 

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