“Mussolini ha fatto tanto per le donne! – Le radici fasciste del maschilismo italiano” di Mirella Serri (Longanesi) – recensione di Nicoletta Bortolotti

Difficile sbrogliare, alla fine di questa scrittura, la matassa emotiva che lascia nel lettore e che trasmette, come già il precedente volume dell’autrice Claretta l’Hitleriana, un senso di orfanitudine. Ci si sente orfani non solo dei personaggi, scolpiti e incisi nella memoria con uno scalpello mirabile, ma anche dei mondi, delle atmosfere, dei luoghi del tempo che Mirella Serri sa magistralmente suscitare e ri-suscitare. E della Storia.
Parrebbe che Serri abbia inventato un genere letterario nuovo, il suo, che è molto più della saggistica e molto più del romanzo.
La finissima analisi psicologica del cocktail letale di dipendenza, passione e crudeltà che Benito Mussolini iniettava nelle sue amanti e che affonda le radici probabilmente nelle sue umili e disagiate origini e nella conseguente rabbiosa brama di riscatto, muta in rigorosa analisi storica quando mostra, passo dopo passo, come quel veleno, dopo un’iniziale e menzognera presa di posizione del futuro duce a favore del voto femminile, solidifica in maschilismo di Stato.
Il fascismo mette in atto un programma politico e legislativo che esclude progressivamente le donne dal mondo del lavoro, dalla scuola e dall’istruzione superiore, dimezza i salari delle braccianti e delle operaie raddoppiando quelli degli uomini, e riduce i più elementari diritti ottenuti in precedenza.
Nel ventennio fascista la condizione femminile precipita, rispetto alla più generica e meno programmatica impostazione patriarcale della società ottocentesca. Anche nel linguaggio che si fa volgare e sguaiato, “da osteria”, e definisce la donna “orinatoio” dell’uomo, per sottolineare la sua mera funzione di sfogo sessuale e incubatrice-riproduttrice. Il movimento femminista che, anche in Italia nei primi anni del Novecento, risulta incisivo, attivo e organizzato, fortemente compenetrato con lo sviluppo e il consolidamento del partito socialista, il più antico partito politico italiano, viene del tutto cancellato e ridotto al silenzio.
Da qui, ed è il passaggio cruciale e sorprendente di questo magnifico saggio-romanzo, trae origine il maschilismo dei padri costituenti che, pur avendo combattuto la Resistenza a fianco delle donne, recano con sé nel dopo-guerra, complice anche la cultura ecclesiastica, la trita zavorra dei pregiudizi maschilisti mussoliniani. E ostacolano il voto femminile, sancito nel 1946, ritenendo ancora nell’immaginario la vetusta figura dell’angelo del focolare, esclusivamente dedito alla casa e ai figli.
E tuttavia, l’autrice non narra solo di “Mussolini e le donne”, soggiacendo a un ordinamento grammaticale dei termini che ancora una volta metterebbe in risalto l’uomo dittatore (nome proprio), seguito da una grigia e anonima nuvolaglia di donne (nome comune); ma ha il pregio di creare una piccola rivoluzione, di disegnare una nuova cartografia psichica e semantica, prima sul piano del linguaggio e dello spazio letterario che su quello politico, e di rappresentare, di invitare sul palcoscenico storico e narrativo “le donne e Mussolini”: le donne (nomi propri) e Mussolini (nome comune).
Le donne che lo hanno amato; che si sono lasciate sedurre da lui; che lo hanno sedotto; che sono state sfruttare e poi, a una a una, scartate, respinte, ripudiate con pesanti umiliazioni fisiche e verbali. Per alcune di loro il feroce rifiuto muta l’amore in odio. E l’odio diventa il principale movente, la spinta interiore ad aprire finalmente la “porta segreta”, come nella favola di Barbablù, per scoprire i cadaveri di un sistema basato sulla repressione, sull’assassinio e sulla corruzione. Per alcune di loro, la dolorosa ma salvifica presa di coscienza è solo la prima tappa che le condurrà a riabbracciare la causa femminista e, successivamente, la causa antifascista.
Ritratti indimenticabili, ritoccati in chiaro scuro, sfilano nel testo come una galleria di quadri d’epoca. L’adamantina Anna Kuliscioff, la “dottora dei poveri” e compagna del “Filippin”, Filippo Turati, che sin da subito prende le distanze da Benito e ne intuisce l’estrema pericolosità; l’avida e ambigua Margherita Sarfatti, in principio sfruttata e in seguito umiliata dal duce, anche in quanto ebrea, la quale pur maturando un sordo rancore non ha la lucidità necessaria per comprendere la minaccia insita nel nascente partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori in Germania; Ernesta Bittanti, Argentina Altobelli, importante sindacalista che durante la vecchiaia è costretta a vendere fiori secchi per mantenersi, Angelica Balabanoff, Ida Irene Dalser… Donne di cui si è un po’ persa la memoria, ma che hanno segnato profondamente la storia di quegli anni e che, grazie a questo volume, si desidererebbe incontrare, interrogare, abbracciare nella mente e nel ricordo.
Ci sono poi i luoghi. Uno su tutti Milano. La Milano dei palazzi storici, di Palazzo Serbelloni dove abitano i Sarfatti, dell’appartamento di Anna Kuliscioff e di Filippo Turati a ridosso della cattedrale, del Caffè Savini, dei salotti buoni, degli artisti che vi si riuniscono. Indimenticabile l’immagine di Anna, allo scrittoio con le immancabili violette, mentre contempla i raggi di luce giocare sui marmi del Duomo, forse la sua ultima visione prima di morire per una peritonite tubercolare.
Mirella Serri, romana, restituisce con incredibile maestria una Milano vivida, esatta, nostalgica e, da milanesi, sarà arduo fare “quater pass in Galeria” senza rivederla gremita di cappotti e ombrelli neri, come in quel lontano e nevoso 3 gennaio 1926, quando vi sfila il corteo funebre di Anna Kuliscioff, funestato dalle camicie nere, e il Duomo invernale si muta ancora in una trina di neve, nebbia e bellezza.
Mussolini ha fatto tanto per le donne! è un libro che si legge in apnea, che ci rende più consapevoli di quanto è stata aspra la lotta di chi ci ha preceduti e di quanto l’odierna disparità di genere abbia radici lontane. Un testo che illumina su un binomio inquietante ed estremamente attuale e globale: regime dittatoriale e oppressione femminile. Prova ne è che la partecipazione maschile alla lotta delle donne iraniane è assurta a simbolo della lotta tout court per la libertà del Paese.
Anche questa volta, come nei volumi precedenti, Serri ha il dono di svelare ciò che non si conosce di ciò che si conosce, o si conosce in modo superficiale, o si crede di conoscere.

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