Il mito dell’età dell’oro
Maria Pellegrini
Nel silenzio delle nostre case ove siamo reclusi per la pandemia è facile, per non cadere nel pessimismo, sognare un mondo diverso ove si possa godere di pace e serenità. Torna alla mente quella mitica “età dell’oro” cantata da antichi poeti.
I primi uomini del pianeta Terra furono colpiti da un susseguirsi di disgrazie, subirono malattie, guerre, catastrofi. Per questo immaginarono che ci fosse un luogo perfetto, un giardino-paradiso, o un’età senza dolori o affanni all’inizio della loro storia. Il tema di un luogo di delizie, creato da Dio per l’umanità, percorre molti libri biblici. Il giardino dell’Eden rappresenta il primo dono che Dio fece all’uomo e alla donna, poi perduto per il peccato originale commesso da Adamo ed Eva.
Questa illusione di un tempo beato ritorna anche in tanti altri racconti dell’antichità. Nella civiltà greca si favoleggia di “un’età dell’oro” di cui scrive per primo il poeta che, con Omero, costituisce il fondamento della letteratura greca, Esiodo. La sua attività è da collocarsi nella seconda metà dell’VIII secolo a. C. Nelle “Opere e giorni” immagina la storia del genere umano come una progressiva decadenza attraverso diverse età simboleggiate con i nomi di metalli: oro, argento, bronzo, ferro. La prima e più perfetta è quella dell’oro durante il regno di Crono (identificato poi con Saturno in età romana), prima dell’avvento di Zeus (identificato con Giove nella religione romana) quando:
«gli uomini vivevano come dei, senza affanni nel cuore, lontani da pene e miseria, né arrivava la triste vecchiaia, ma sempre ugualmente forti di gambe e di braccia si rallegravano nei conviti e morivano come vinti dal sonno, e ogni sorta di beni c’era per loro: la fertile terra dava spontaneamente i suoi frutti ricchi e abbondanti; e loro, contenti e in pace, si spartivano i frutti in mezzo a beni infiniti, ricchi d’armenti e cari agli dei beati». (112 ss.)
Per Arato di Soli (IV-III sec. a.C.), autore dei “Fenomeni” (noti con il titolo di “Aratea”) il genere umano dall’età dell’oro attraverso varie tappe temporali ha assunto progressivamente un modo di vita degenerato. Cicerone che ha tradotto la sua opera scrive che essi all’inizio «preferivano vivere paghi di una parca condotta di vita» poi nell’età del ferro «d’un tratto apparve la stirpe che per prima osò forgiare la spada mortale».
Alcuni poeti latini hanno evocato con rimpianto la mitica età dell’oro, altri ne hanno negata l’esistenza. Lucrezio, eccelso poeta dell’età di Cesare, nel libro V del “De rerum natura” con una lunga serie di versi traccia la storia dell’umanità, ma seguendo le posizioni del suo maestro Epicuro, rifiuta il mito poetico dell’età dell’oro, quando la terra donava spontaneamente e generosamente frutti abbondanti e gli uomini vivevano felici ed innocenti, senza malattie né vecchiaia, né fatiche, né affanni. I giorni della vita dei primi uomini scorrevano interamente sotto il segno della dura necessità in una lotta incessante contro gli ostacoli e le avversità. Il poeta delinea uno sviluppo graduale dell’umanità dalla rozza condizione originaria verso una progressiva evoluzione e civiltà. Da un’esistenza ferina irta di difficoltà (quando gli uomini vivono immersi nella solitudine di una natura tutt’altro che benigna dove non scorrono fiumi di latte e miele, ma vige la legge della selezione dei più forti), alla spinta delle esigenze del vivere verso il progresso.
Tuttavia Lucrezio non oppone al mito dell’età dell’oro il mito contrapposto di una vita ferina. Nell’infanzia del mondo gli uomini brancolano nelle tenebre dell’ignoranza, ma hanno una loro smemorata felicità in uno stato di innocenza originaria anteriore ai mali della società civilizzata.
Virgilio, il più grande poeta dell’età augustea, proietta l’avvento di quell’età dell’oro, che fu dei primi uomini, nel futuro sotto forma di profezia. Quando nel 40 a.C. si conclude la pace di Brindisi fra Ottaviano e Antonio, il poeta, avverso alle violenze delle guerre, l’accoglie con un senso di sollievo: nel mondo romano torna l’ordine, il rispetto del cittadino, il culto della giustizia. La nuova atmosfera ha una profonda ripercussione nell’animo di Virgilio che scrive l’ecloga IV per celebrare la nascita di un fanciullo nel quale vede l’iniziatore di una nuova età dalla vita serena e pacifica dopo il periodo tragico delle guerre civili. Il neonato è il figlio del suo amico Asinio Pollione, che ha avuto una parte attiva nelle trattative della pace brindisina. Il suo consolato apre l’animo alla speranza di un futuro migliore e soprattutto la nascita di suo figlio, è vista come simbolo di rinnovamento, una nuova età dell’oro con tutte le caratteristiche di questa epoca secondo gli schemi tradizionali di un tòpos. Il componimento è una commossa espressione dell’intimo sogno del poeta di un’età di pace e giustizia:
«Per te, o fanciullo, la terra senza che nessuno la coltivi, / effonderà i primi piccoli doni. …/ Le capre da sole riporteranno le poppe colme / di latte, e gli armenti non temeranno i grandi leoni». Quando il fanciullo diventerà uomo sarà abolita la navigazione e il commercio perché ogni terra produrrà tutto quello che sarà necessario a vivere. «Il suolo non patirà rastrelli, né la vigna la falce / anche il robusto aratore scioglierà i tori dal giogo». (IV, 18 ss.)
Nel I secolo a. C. è diffusa in molti strati della società romana la credenza di un rinnovamento periodico dell’universo con riferimento a credenze di varia origine (orfismo, pitagorismo). Il mito di un fanciullo divino da secoli si aggira nelle religioni orientali.
Il Medioevo vedrà nell’ecloga il preannuncio della nascita di Cristo e a Virgilio sarà attribuito il preannuncio del Messia cristiano. L’idea che nel futuro tornerà la condizione felice dell’umanità primigenia è un’utopia sognata a lungo nei secoli futuri.
Nelle “Georgiche” Virgilio descrive - con accenti che richiamano la storia lucreziana del progresso umano - il passaggio dal regno aureo di Saturno a quello del figlio Giove, segnato dall’avvento del “labor improbus” imposto all’uomo, ma la legge del duro lavoro spinge a progredire e così nasceranno le diverse arti:
«Prima di Giove non v’erano agricoltori a lavorare la terra, / e neanche si potevano sognare i confini dei campi e spartirli; /tutti gli acquisti erano in comune, la terra da sé / donava, senza richiesta, con grande liberalità, tutti i prodotti. / Il dio aggiunse il pericoloso veleno ai tetri serpenti, / e volle che i lupi predassero, che il mare si agitasse, / e scosse il miele delle foglie e nascose il fuoco /e fermò il vino che fluiva sparso in ruscelli, / affinché il bisogno sperimentando a poco a poco esprimesse le varie arti…. Tutto vince il faticoso lavoro e il bisogno che incalza nelle avversità» (I, 125 ss)
In un’elegia di Tibullo, poeta d’età augustea, è presente la nostalgica rievocazione dell’età dell’oro, per certi versi vicina al suo ideale di vita semplice e a contatto con la natura lontano dalle asprezze di un’età che aveva visto susseguirsi ben tre guerre civili:
«Com'era felice la vita sotto il regno di Saturno, / prima che la terra fosse aperta a viaggi lontani! /Sfidato ancora non aveva il pino / le onde azzurre del mare e offerto al vento / vele spiegate, né in cerca di lucro,/ battendo terre sconosciute, un marinaio /aveva colmato la nave di merci straniere./ Mai in quel tempo un toro /sottomise al giogo la propria forza,/ né un cavallo con la bocca domata morse il freno;/ nessuna casa aveva porte e /non si piantavano pietre nei campi/per fissare confini invalicabili ai poderi./Stillavano miele le querce/e spontaneamente le agnelle/ gonfie di latte offrivano le poppe/ alla gente serena/.Non c'era esercito, né rabbia, guerre /o un fabbro disumano /che con arte crudele foggiasse le spade./ Ora sotto la signoria di Giove /non vi sono che ferite ed eccidi». (I, 3, 35 ss.)
Tra i poeti augustei, anche Orazio, nell’epodo XVI, scritto negli stessi anni in cui Virgilio compone l’egloga quarta, tratta il mito di un luogo paradisiaco, simile a quelli dell’età dell’oro, le Isole Felici situate nell’Oceano, più volte ricordate dai poeti anche da Esiodo che le dice riservate dagli dei ad eroi:
«Ci aspetta l’Oceano che circonda la terra: / dirigiamoci dunque alle terre felici, alle isole/ dove il suolo dà messi ogni anno senz’essere arato, / dove senz’essere potata cresce la vite, / dove germoglia l’olivo senza mancare alle attese, / e il fico scuro adorna il suo albero, / il miele sgorga dal leccio cavo, e dall’alto dei monti / sgorga lieve l’acqua con corso sonoro». (XVI, 41 ss.)
Né poteva mancare il ricordo di questo mito nelle “Metamorfosi” di Ovidio, poeta che Augusto relegò in esilio per una colpa mai chiarita. Potremmo citare altri autori, ma ci fermiamo a quelli dell’età augustea:
«Per prima fiorì l’età dell'oro, che senza giustizieri /o leggi, spontaneamente onorava lealtà e rettitudine./ Non v'era timore di pene, né incise nel bronzo /si leggevano minacce, o in ginocchio la gente temeva /i verdetti di un giudice, sicura e libera com’era./[…] Non toccata dal rastrello, non solcata / dall'aratro, la terra produceva ogni cosa da sé /e gli uomini, appagati dei cibi nati spontaneamente,/ raccoglievano corbezzoli, fragole di monte, / corniole, more nascoste tra le spine dei rovi».(Metamorfosi, I, 89 ss.)
Che sogneremo noi del ventunesimo secolo? Forse i disastri di questa pandemia dovrebbero spingerci ad agire per un mondo migliore. Un invito potrebbe essere un articolo di Enrique Dussel, filosofo argentino, naturalizzato messicano, uno dei maggiori pensatori contemporanei, di cui riportiamo un passaggio:
«L’Umanità dovrà apprendere, a partire dagli errori della Modernità, ad entrare in una Nuova Età del Mondo, dove, partendo dall’esperienza della necro-cultura degli ultimi cinque secoli, dobbiamo innanzitutto affermare la Vita sul capitale, sul colonialismo, sul patriarcalismo e su molte altre limitazioni che distruggono le condizioni universali della riproduzione di questa Vita sulla Terra. Questo dovrà essere ottenuto pazientemente lungo il XXI secolo che abbiamo solo iniziato. Nel silenzio del nostro ritiro, richiesto dai governi per non contagiarci […] abbiamo tempo per pensare al destino dell’Umanità in futuro».
Con queste parole si conclude l’articolo dal titolo: “Quando la natura mette sotto scacco l’orgogliosa modernità”
(http://filosofiainmovimento.it/quando-la-natura-mette-sotto-scacco-lorgo...
Nota - nell’immagine L’età dell’oro di Pietro da Cortona (Galleria Palatina di Palazzo Pitti Firenze)
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