Ho visto stasera "Marx può aspettare" di Marco Bellocchio.
È un film bellissimo.
Dentro ci sono troppe cose per riuscire a sintetizzarle. C'è la tensione aperta tra il Bellocchio del 68 de I pugni in tasca, della critica radicale alle istituzioni, alle gerarchie ereditate, del marxismo sessantottesco con quello odierno, un regista vecchio ma non decrepito, che guarda retrospettivamente a quella stagione, che riscopre nella storia del fratello suicida la dimensione "religiosa" della famiglia.
Una famiglia che è la parte più intima e dimenticata dietro l'impegno militante del tempo, rimossa nella fuga in avanti che scandisce le tappe del grande regista piacentino.
Una famiglia, però, mai del tutto compiutamente "borghese", mai del tutto pacificata con se stessa, ma un ricco ricettacolo di drammi e memorie che finiscono per riaffiorare quando il regista guarda indietro per cercare le tracce della propria storia.
È un film sul cinema che è sempre un grande arcobaleno di memorie irregolari, di intrecci tra ricordi e rimozioni che hanno bisogno di un racconto per essere visti, pensati, ricostruiti.
Penso che la cosa meno interessante sia mettersi a misurare la distanza tra il Bellocchio di oggi e quello di ieri, magari usando il suo marxismo come metro di misura.
Il Bellocchio di ieri e di oggi sono due entità storicamente incommensurabili e quindi non ha proprio senso compararli.
 

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