L'Umbria non decolla (di Franco Calistri)
Dopo i dati sui redditi, diffusi dal Sole 24 ore, poche settimane fa, che evidenziavano un crollo dei livelli dei redditi umbri che nel 2021 continuavano, in termini reali, a collocarsi al di sotto dei livelli pre Covid (-0,3% a fronte di un +2,8% a livello nazionale), adesso arrivano le elaborazioni dell’Ufficio Studi della Cgia di Mestre (Confederazione generale italiana artigiani) che puntualmente fanno crollare il castello di carta propagandisticamente messo su dalla Giunta regionale di centro-destra, guidata da Donatella Tesei, sulle meravigliose e “progressive” sorti dell’economia umbra.
Secondo l’Ufficio studi della Cgia , dopo un 2022 da record, segnato da una forte e generalizzata ripresa dei livelli produttivi in tutta Europa, per il 2023 si prevede un generale rallentamento in Europa e, ovviamente, anche in Italia, ma che, nel caso italiano, interesserà in maniera differenziata le varie aree del paese. In particolare “Lombardia e Nord-est continueranno a trainare il paese, rafforzando la leadership del nuovo triangolo industriale allargato (Milano-Bologna-Venezia) che da qualche decennio ha “scalzato” quello storico (Milano-Torino-Genova) che, ricordiamo, ha determinato il boom economico degli anni ’60 del secolo scorso”. Se la crescita media per il Pil nazionale per il 2023 è prevista dello 0,69% a fronte del 3,67% del 2022, in Lombardia, Veneto e Friuli Venezia Giulia sono previsti tassi di crescita attorno all’0,82%, seguiti dallo 0,79% dell’Emilia Romagna o lo 0,77% del Trentino Alto Adige. Ne consegue che quasi la metà del Pil nazionale (46,3% già al 2022) viene ormai prodotto in quest’area composta da Nord-est allargato alla Lombardia.
In questo contesto l’economia umbra, che nel 2022 aveva fatto registrare una crescita del 3,52% (leggermente al di sotto del 3,67% della media nazionale, ma anche del 3,66% del complesso delle regioni del Centro), nel 2023, sempre secondo le previsioni Cgia Di Mestre, dovrà accontentarsi di un magro 0,59%; meglio di lei faranno regioni come l’Abruzzo (+0,65%) o la Basilicata (+0,71%). Nella classifica (rank) delle regioni italiane per tasso di crescita, l’Umbria si colloca al 13° posto (peggio di lei: Sardegna, Valle D’Aosta, Lazio, Calabria, Molise, Liguria e Marche, che chiudono graduatoria con un +0,38%). Questi ultimi dati, assieme ad altri indicatori, sono tutti indizi di una difficoltà profonda, strutturale per l’Umbria e la sua struttura economica-produttiva ad agganciare la ripresa economica, ma sopratutto a rompere il suo lento ma progressivo scivolamento verso una condizione di marginalità e di zona periferica rispetto alle aree forti del paese. E, come si suol dire, più indizi iniziano a fare una prova.
Adesso, non era e non è necessario essere dei raffinati economisti, esperti di studi previsionali di blasonato istituti di ricerca economica, per capire che per l’Umbria, la situazione (attenzione in assenza di significativi interventi sul piano strutturale) avrebbe avuto un’evoluzione del tpto di quella che i dati Cgia ci restituiscono. Bastava un po’ di buon senso ed una conoscenza non superficiale della struttura produttiva regionale (doti che, a quanto pare difettano a questa giunta regionale).
Da che mondo è mondo, verrebbe da dire, quando il sistema economico produttivo nazionale entra in crisi, in particolare crisi provocate da fattori esterni (come è stata quella del Covid) ed in situazioni dove, è il caso dell’Italia nei confronti dell’Europa, vi è un peso determinante del vincolo esterno, è del tutto evidente che sono le parti più “pregiate” del sistema produttivo a subire i contraccolpi della crisi, quelle più tecnologicamente avanzate, quelle che lavorano sui mercati internazionali. Paradossalmente le parti più arretrate, che lavorano per il mercato interno, sono quelle che nei momenti più acuti della crisi reggono botta. Ed è esattamente quello che è successo con il Covid, con le attività produttive chiuse per decreto, localizzate in buona parte nelle aree avanzate del paese, non certo negli aridi altopiani sardi o nei piccoli borghi della nostra Valnerina (con tutte le emozioni che quei paesaggi suscitano). Quando il ciclo riprendere a crescere, in un primo mento, sono ancora le parti più arretrate, quelle che hanno subito pochi danni, ad approfittare della ripresa, sopratutto se trainata dal mercato dei consumi interni. Ma a lungo andare non reggono e riprendono a scivolare nel cono d’ombra della marginalità, dell’essere periferici rispetto al complesso del sistema produttivo. Il tutto all’interno di un aggravante. Durante il periodo di crisi le imprese più esposte, per necessità di sopravvivenza ma anche perché, talvolta, guidate da intelligenza imprenditoriale, mettono in atto atteggiamenti, strategie ed investimenti indirizzate a rendere le aziende più reattive e capaci di fronteggiare periodi di crisi. Atteggiamenti e strategie di questo tipo non sono state messe in atto dai sistemi produttivi più arretrati. Lo testimonia un’indagine di qualche anno fa dell’Istat che segnalava, in sistemi produttivi come quello umbro, un bassissimo livello di reattività, in termini di investimenti, riorganizzazione ecc.. Forse sarebbe stato più opportuno riflettere su questi aspetti, stimolare politiche di investimento in innovazione ricerca, tutte azioni che la politica regionale, gongolandosi su qualche decimale di perdita in meno di Pil (ricordate la Presidente Tesei sbandierare trionfalmente il -8,5% del 2020 a fronte del -8,9% della media nazionale, roba che ha dell’incredibile), preferendo la propaganda e le politiche delle mance.
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