Con la lingua non siamo patriottici. Basta infarcirla di parole straniere
Elio Clero Bertoldi
Nonostante la Gran Bretagna sia uscita dall’Europa, continuiamo ad essere inondati, meglio ancora, soffocati, dagli anglicismi.
Il Coronavirus - via Germania e via Cina - ha scaricato nelle nostre lande non soltanto un morbo ad alta diffusività e troppo spesso letale, ma anche un’altra vagonata di nuovi vocaboli inglesi, di cui, sinceramente, non avevamo,alcun bisogno. Tra gli altri emergono dai titoli e dai testi delle ultime settimane “lockdown”, “smart working”, “droplet”. Non esistono lemmi corrispettivi in lingua italiana? certo che sì! nell’ordine: confinamento (o segregazione), lavoro-agile, goccioline. Però pure la moda, che sia elegante o volgare, reca con sé un’alta dose di infettività e tutti, o quasi, si accodano senza alcuno spunto critico e cinguettano giulivi infarcendo i loro interventi di parole straniere. Non si rendono conto, tuttavia, che così parlando e scrivendo, contribuiscono ad infliggere ulteriori colpi esiziali alla lingua madre, che tra l’altro non se la passa benissimo. Collaborano, colposamente ignari, col “nemico”.
In uno dei racconti de “Le rose di Atacama” di Luis Sepulveda, l’anziano professor Galvez, di cui non rammento il nome, esule cileno in Germania, raggiunge la Spagna col connazionale scrittore e si siede al tavolo di un caffé di Gijon, nelle Asturie. All’improvviso, mentre tutto intorno gli avventori parlano tra loro ad alta voce, scoppia a piangere. Sepulveda si preoccupa: gli chiede se si senta male, cosa abbia, cosa accusi... E lui risponde, scrollando la testa, che le sue non sono lacrime di dolore, ma di gioia: “Non ti rendi conto? siamo tornati in patria. La nostra lingua é la nostra patria”. Frase illuminante. da mandare e tenere a mente.
I politici frequentatori ossessivi del piccolo schermo, i parlamentari che blaterano “prima gli italiani” o quelli che ritengono di indorare i loro vuoti discorsi spargendo qua e là espressioni esotiche, i partecipanti ai salotti televisivi e radiofonici pubblici e privati, i giornalisti dei quotidiani, nazionali o locali che siano, invece di riempire bocca e testi scritti di lemmi stranieri, compiano un piccolo sforzo mentale per trovare ed utilizzare i corrispondenti termini nostrani. Chi non ci riesce di suo, acquisti un dizionario.
Quando all’estero qualcuno addita, a torto e con assurde generalizzazioni l’Italia, come “terra di mafia e maccheroni“, giustamente gli italiani insorgono e replicano, patriottici e sdegnati, aggrappandosi alla grandezza del nostro paese, della sua cultura, della sua storia, della sua arte, dei suoi letterati, poeti, navigatori, santi, scienziati e quant’altro. Molti, però, scivolano poi sulla buccia di banana della nostra lingua, spesso dimenticata, tartassata, seviziata non solo nelle più elementari regole grammaticali e sintattiche, ma persino tradita col ricorso a termini forestieri, inglesi, soprattutto, quando la nostra lingua porta il vanto di essere tra le più ricche di sfumature linguistiche (quasi 200.000 parole, o giù di lì).
Proseguendo di questo passo l’italiano continuerà a perdere terreno a livello internazionale e fra pochi lustri si trasformerà in un dialetto, peggio in un vernacolo. Non solo per colpa del basso numero di abitanti, delle economie più forti, del mondo che cambia, ma pure per l’insipienza e l’ignoranza di un buon numero di connazionali.
Fuori dai denti, vi prego: basta con questo profluvio di parole lontane dal nostro idioma (“... del bel paese là dove il sì suona”, cantava già Dante Alighieri, al tempo in cui l’Italia restava soltanto un concetto astratto), parlate e scrivere in italiano, c...o, ops, cribbio!
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