L’attacco di Draghi agli anni 70, sotto accusa il conflitto sociale (di Fausto Bertinotti)
 

Il recente confronto tra il capo del governo e la Confindustria è stato rivelatore di ciò che si cela dietro l’ottimismo che si profonde a piene mani nelle comunicazioni di massa. Il futuro perseguito dalle politiche adottate dai governi è invece incerto. La ripresa tanto vantata, quel 6% in più così esibito, è troppo caratterizzata dal rimbalzo da una precedente condizione devastata. Troppi fattori geopolitici, troppi fattori politici esterni e interni all’Europa ultimo quello tedesco ne insidiano la proiezione futura.

 

Soprattutto la dissociazione in atto tra la ripresa economica e l’occupazione spalanca davanti a sé il rischio di una crisi sociale incontrollabile. Il 90% degli 832 mila contratti di lavoro attivati nei primi otto mesi dell’anno sono a termine e di breve durata, persino superiori nel numero a quelli della stagione pre-covid. Le crisi aziendali si radicalizzano e si moltiplicano, mentre il blocco dei licenziamenti sta per finire. Le politiche attive del lavoro sono pour cause senza alcun risultato. Sulle pensioni si prevedono tensioni, mentre le povertà si incancreniscono e si dilatano nella società. Sono i prodromi allarmanti di una crisi sociale che potrebbe diventare incontrollabile. È questo rischio che fa da sfondo al confronto tra il presidente del Consiglio e il capo del patronato, ma il confronto vuole ribaltare questo rischio che diventa il suo contrario. Titolava la Repubblica: “Lo spettro del conflitto sociale da evitare a ogni costo”. Lo spettro del conflitto sociale prende il posto della crisi. Lo spettacolo che è andato in scena all’assemblea della Confindustria è rivelatore, sia di quanto la democrazia sia sotto schiaffo, sia della natura sociale delle politiche adottate dai governi europei, e in particolare dal nostro, per affrontare la crisi e per realizzare la ristrutturazione dell’economia.

 

È significativa anche la particolare relazione che si è manifestata tra i due poteri, non una gerarchia, non un prevalere dell’uno sull’altro, come in tante e in diverse occasioni accadute nel passate, ma una particolare complementarietà si è messa in luce. Il capo del governo ha fornito il quadro entro cui la Confindustria ha potuto collocare il suo indirizzo, come in una relazione funzionale. Lo spettro del conflitto nasce infatti dalla scelta politica e ideologica di considerare quel quadro immodificabile, le scelte politiche diventano allora necessarie, dunque indiscutibili. L’aggettivo qualificativo necessario è stato la chiave di volta dell’incontro. Necessarie, le politiche per il capo del governo; necessario il capo del governo per la Confindustria. L’imbarazzante ovazione, tributata a Draghi, è stata più di un segnale di crisi, ha voluto mostrare la piena dipendenza dal principe. Quando Bonomi ha detto che Draghi è l’uomo necessario non è caduto nell’errore di grammatica democratica, ha detto quel che voleva dire. Solo la saggezza popolare sa che tutti sono utili, ma nessuno è necessario. Ma se dici che un presidente del Consiglio è necessario, dici che la sovranità popolare è, come è, sospesa, e che la politica è, come deve essere, muta, perché questo è il tempo delle scelte obbligate.

 

Il suo carattere di classe è messo in evidenza dalla parallela demonizzazione del conflitto sociale, è significativo che a farlo è stato proprio il presidente del Consiglio con un discorso dal carattere ideologico e tecnicamente reazionario. Il suo revisionismo storico ha preso di mira la storia sociale del dopoguerra per rovesciarne la lezione. Negli anni scorsi la demonizzazione della rottura degli anni ‘68-’69 doveva servire di base alla restaurazione, Draghi ne allarga il rigetto, estendendolo a tutti gli anni ‘70, gli anni in Italia della riforma sociale e di fabbrica, del protagonismo operaio, dello Statuto dei diritti dei lavoratori e del loro potere conquistato sulla propria condizione di lavoro. Quelli sono gli anni dell’ingresso della costituzione in fabbrica, prima impedita. Draghi, per indicare la causa della fine della crescita impetuosa degli anni ‘60 in Italia e la differenza con gli altri paesi succedutasi, denuncia che “da noi, nel finire degli anni Sessanta si è assistito alla totale distruzione delle relazioni industriali”.

 

 

Il presidente del Consiglio chiama così la conquista del contratto nazionale di lavoro e la diffusione della contrattazione aziendale, chiama così l’idea della conquista della salute in fabbrica, l’intervento dei lavoratori, la loro partecipazione sull’organizzazione del lavoro, perciò si può definire tecnicamente il suo discorso reazionario. Ma è tutto il rapporto tra il lavoro e la produzione, che così viene racchiuso nel discorso del presidente del Consiglio in una chiave regressiva, negando tutta la ricerca progressiva che, insieme alle lotte operaie, hanno prodotto tecnici, ricercatori, sociologi, economisti, mostrando la possibilità che proprio il conflitto, la contrattazione, la conquista, conducono e possono condurre aziende alla ricerca di nuove forme di organizzazione del lavoro e di assetti tecnologici capaci di realizzare l’incremento della produttività. Visto che si parla di storia delle relazioni industriali anche tra le diverse visioni imprenditoriali si può scegliere, e scegliere Valletta contro Olivetti non è “necessario”.

 

Torna implacabile la domanda: ma un potere istituzionale necessario rispetto a che? La risposta la fornisce il capo della Confindustria, che dice esplicitamente di quali contenuti vuole riempire il quadro fornitogli. Se il quadro fornito è quello di una controriforma del capitale sull’economia di un Paese che si vuole esportatore, dopo il covid, il ruolo che Bonomi attribuisce all’impresa capitalistica è quello di agente primo, che opera direttamente sul campo d’azione fondamentale e di un protagonista generale nella controriforma di sistema. La Confindustria come soggetto politico. Il patto sociale tra imprese e sindacato, la cui proposta si dice concordata tra i due leader, è l’ennesima proposta di un atto leonino, da cui il sindacato dovrebbe stare lontano per semplici ragioni di sopravvivenza. Basterebbe vedere da dove si comincia, nell’agenda prevista degli incontri con le parti sociali. Si comincia dall’esclusione del salario minimo garantito. Questa è ormai con tutta evidenza una misura minima elementare, da cui al contrario si dovrebbe cominciare per rispondere a chi lavora senza avere né diritti né tutele, i milioni di lavori esternalizzati di ogni settore, dai temi culturali all’energia, da quelli a rimborso spese ai lavoratori a tirocinio, alle finte partite iva, agli invisibili in migliaia di piccole aziende. Se non fanno scandalo è perché altri si prevede scivoleranno in quella condizione anche da posizioni oggi maggiormente tutelate.

 

L’agenda della Confindustria pretende le sue riforme, prima quella sulla concorrenza perché ci sono “troppi settori sottratti alla logica di mercato”, poco importa se in quel mercato avanzano le Gkn e i licenziamenti di massa, l’importante è che lo Stato non abbia gli strumenti di intervento per invertire queste rotte e creare lavoro. Poi bisogna che il profitto sia alleggerito dalle tasse, a partire dall’eliminazione dell’imposta sulle attività produttive (Irap). Infine, si fa per dire infine, un’espansione delle privatizzazioni, in ogni campo della realtà sociale, dalle agenzie per le politiche attive al lavoro fino alla cassa integrazione che si vorrebbe trasformata in un’assicurazione pagata dai “beneficiari in funzione dell’utilizzo”. Si dovrebbe qui fare un impegnativo e complesso discorso sulla cassa integrazione guadagni a partire dalla scopo per la quale essa è stata introdotta, come strumento di difesa dai licenziamenti, ma anche per un impegno diretto a cui richiamare l’impresa per la ricollocazione dei lavoratori.

 

Ma basti pensare, per capire dove condurrebbe la svolta privatistica di Bonomi, a cosa sarebbe accaduto ai lavoratori sospesi dal lavoro nel tempo del covid senza una Cassa integrazione solidaristica, fino a quella appositamente istituita della Cassa integrazione straordinaria. Ma l’urlo del capo del partito dell’impresa nella sua veste di falco riconosciuta è stata possibile per la cornice offerta dall’ “uomo della necessità”. Sarà bene, per chi non si disponga a vivere questa prospettiva, pensare a come si possa mettere in discussione questo quadro e queste relazioni, a partire dalla valorizzazione sociale e politica degli scontri sociali e di lavoro aperti nella realtà italiana. Per rovescio, da questa nuova relazione governo-Confindustria viene però il suggerimento giusto: la chiave sta nel conflitto sociale. In morte della politica, la parola torna al sindacato “necessariamente”. Ma come fa il sindacato a riprendersela se proprio a partire dal salario minimo resta dentro la cornice dannata?
 

Fausto Bertinotti

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