di Maria Pellegrini 

I nostri cimiteri sono tutti affollati di lapidi con iscrizioni molto semplici: nomi, date, brevi citazioni dal Vangelo o frasi di compianto da parte dei sopravvissuti. L’identificazione del caro estinto è affidata alla foto. Manca l’interesse storico e narrativo e quell’intensità di sentimenti espressa nelle antiche epigrafi funerarie romane che sono un libro aperto, non sulla morte, ma sulla vita a Roma al tempo della repubblica e dell’impero, soprattutto la vita di quelle persone che non avrebbero lasciano traccia di sé nei libri di storia. Le raccolte di queste iscrizioni sono molto ampie: per fare un esempio, solo le iscrizioni relative alla città di Roma sono 40.000. Il testo era lasciato scritto dal defunto stesso, o indicato dai parenti che spesso si servivano di iscrizioni copiate da epitaffi incisi su altre tombe; infatti molte sono uguali, ma alcune sono molto originali e poetiche.

Nelle iscrizioni tombali dell’antichità romana sono concentrate le storie più varie, raccontate da chi resta per onorare gli esempi di vita del defunto, per riflettere sull’umano destino, per ammonire, parlare di se stessi o dei propri cari e lasciarne memoria. Sono voci autentiche immortalate nel marmo, nel tufo o nel bronzo, che non hanno subìto modifiche, come è successo talvolta a manoscritti antichi riprodotti con mutamenti o errori dei copisti. Rappresentano brandelli di vite, storie belle e reali, tanto vive da destare ammirazione. Chi studia la storia antica di un popolo non può fare a meno di prestare attenzione alle numerose iscrizioni lasciate dagli uomini con l’intenzione di far durare nel tempo il messaggio che si voleva trasmettere. Lo studio delle fonti epigrafiche di un popolo - non solo quelle funerarie - offre un’immagine della società che le produce.

Gli antichi romani ponevano le necropoli allineate lungo le strade di grande traffico, le iscrizioni funebri attiravano l’attenzione dei passanti che si soffermavano per pensare un momento al defunto, del quale potevano leggere nome e notizie della sua vita o della sua morte, informazioni su chi aveva commissionato l’opera, che poteva essere una semplice tomba o un monumento; se invece era stata costruita dal defunto quando era in vita c’era l’indicazione abbreviata VF (Vivus Fecit), diffusa tra i ceti emergenti che si compiacevano nell’esibire i propri mezzi economici, naturalmente la data della morte era apposta in seguito; si potevano leggere disposizioni relative al sepolcro (per esempio, se il defunto voleva escludere gli eredi usava la formula HMHNS abbreviazione di Hoc Monumentum Heredem Non Sequetur, cioè “questo monumento non passerà all’erede”), maledizioni contro chi violasse la tomba o deturpasse il monumento, considerazioni sulla morte, consigli, ringraziamenti ed esortazioni a far buon uso della vita espressi a nome del defunto stesso o da chi aveva provveduto alla sepoltura e a formulare il testo dell’iscrizione.

Le iscrizioni funerarie sono tutti epitaffi veri, non letterari, cioè sono stati ritrovati sulle tombe venute alla luce durante scavi di archeologi, non fanno parte di una qualche raccolta poetica, anche se alcuni sono scritti in versi. Contengono storie di vita quotidiana di cittadini comuni, e, come scrisse Antonio Gramsci: “Attraverso l’analisi delle iscrizioni funerarie, ricevono luce soprattutto le culture che in qualche modo appaiono subalterne”.

L’iscrizione spesso sembra prendere vita, rappresenta il defunto che parla in prima persona dando notizie di sé: gli anni, le cause della morte, il lavoro di cui si è occupato in vita. Spesso ci troviamo a leggere una frase brevissima e fulminante, a volte più estesa, spesso poetica:

       “Infelice, carica d’anni, sopravvissi al marito e alla figlia.”

       “Mi chiamo Franco, soldato nell’esercito di Roma, mi comportai sempre da valoroso in guerra.”

       “Qui io, Lemisio, giaccio. Sola la morte mi dispensò dal lavoro.

       “Mi ha rapito il sole.”

       “Qui Zotico null’altro lascia che un labile nome; il corpo è cenere, la vita s’è dissolta nell’ètere.”

       “Sono convinto che non c’è domani”. 

In numerose iscrizioni il defunto si rivolge al viandante pregandolo di fermarsi e di riflettere sul triste destino dell’uomo, sul nulla che c’è dopo la morte o consigliandolo di vivere con pienezza, con gioia, e di amare:

       “Ehi, tu che passi, vieni qui, riposa un momento. Scuoti il capo? Eppure anche tu dovrai venire qui.”

       “Tu che leggerai, cerca di vivere e di star bene, di amare e essere riamato fino a che verrà il tuo ultimo giorno!”

       “Bagni vino e Venere devastano i nostri  corpi. Ma bagni vino e Venere fanno     la vita.

       “Non siamo nulla, e fummo mortali. Tu che leggi, rifletti: dal nulla torniamo subito al nulla”.

       “Chiunque tu sia che passi e leggi, fermati, viandante e considera come fu iniqua la mia sorte e com’è vano il mio lamento. Non potei superare i   trent’anni poiché uno schiavo mi tolse la vita e poi mi gettò nel fiume”.

       “Fino a diciotto anni, vissi come meglio potei, caro al padre, a tutti gli amici . Ti esorto a divertirti, a scherzare: qui regna solo estremo rigore”.      

Ci sono epigrafi  che vedono la morte come una liberazione dagli affanni e dolori o con messaggi di speranza nel futuro dei cari:

       “Sono evaso, Sono fuggito, Saluto la Speranza e la Fortuna. Ora prendetevi  gioco di qualcun altro.”

       “Finché sono vissuta, accumulai denaro, ma ne persi altrettanto. Venne la morte e mi liberò da guadagni e da perdite”. 

Troviamo anche epigrafi scherzose:

       “Qui riposano in pace le mie ossa: è ciò che resta di un uomo. Non mi preoccupa il pensiero di sentirmi affamato, sono libero dalle malattie, né mi capiterà più di dover garantire un prestito. Usufruisco per sempre di un alloggio gratuito”.

       “Qui è sepolto Leburna, maestro di recitazione, che visse più o meno cent’anni. Sono morto tante volte! ma così, mai. A voi lassù auguro buona salute”.

       “Ho vissuto come volli. Perché sia morto, non lo so . 

Oppure è un marito, un figlio, un compagno, che ricordano il loro caro elogiando le sue qualità:

       “Alla moglie Antonia: (il cui nome deriva dal greco  ανθος= fiore)

       Per amor mio, hai attraversato mari e terre e cieli inclementi; attraverso i nemici trovasti arditamente la via; hai sopportato incredibili rigori del cielo, o dolce sposa, diletta all’anima mia. Simile a un fiore nel nome, felice  del nostro legame, casta e pudica, non avevi ancora saziato il fuoco del mio amore, poiché sciasti  prima del tempo il talamo consacrato”.

       “La sola cosa che io posso fare, sventurato, è stringermi a te, cara, nella tomba, fino a che mi resta da vivere. Credo che ciò ti sia gradito, se qualche notizia di noi giunge al Tartaro”

       “Al  tenerissimo padre:

       Dopo tante fatiche e tanti affanni, ora taci e riposi in pace nella tua silenziosa dimora”.

       “Nebullo a Marta, sua compagna di schiavitù:

       Piansi, Marta, i dolorosi casi dei tuoi giorni estremi, e composi le tue ossa: Accetta questa prova del mio amore.”

Si possono leggere pensieri  straziati dalla perdita di giovani figli:

       “La madre addolorata fece questo monumento al figlio, di cui mai dovette dolersi, tranne che della sua morte”.

       “Come non piangere una bimba così soave! Meglio se non fossi mai nata se tu, che eri tanto cara, sin dalla nascita eri destinata a tornare presto là da dove eri venuta  a noi ed essere ai tuoi motivo di lutto”. 

Alcuni personaggi importanti scrissero essi stessi il testo da incidere sul loro monumento funebre. Ne ricordiamo alcuni: 

Il dittatore Silla escogitò un'epigrafe che è il ritratto del suo carattere:

       “Non c'è amico che mi abbia fatto un favore, né nemico un torto, che io non abbia ripagato in pieno”. 

Sul sepolcro di Virgilio si può leggere la seguente epigrafe che, secondo la tradizione, egli scrisse di propria mano, riportando i dati essenziali della sua vita: la nascita a Mantova, il sepolcro a Napoli, le sue opere: Bucoliche, Georgiche, Eneide:

       “Mantova mi generò. la Calabria mi rapì, ora mi custodisce Partenope.

       Cantai i pascoli, i campi,  i condottieri”. 

Vogliamo chiudere queste nostre brevi considerazioni sulle iscrizioni funerarie latine citando quella che Trimalcione, il liberto arricchito, noto personaggio del Satyricon di Petronio, volle che fosse incisa sul suo monumento funebre, progettato con grande sfarzo da un architetto:

GAIO POMPEO TRIMALCHIONE MECENATIANO QUI GIACE. GLI FU DECRETATO   IL SEVIRATO DURANTE LA SUA ASSENZA. POTEVA ESSERE IN TUTTE LE  DECURIE DI ROMA, MA NON HA VOLUTO. PIO, FORTE, FEDELE, VENNE SU DAL NULLA, LASCIÒ TRENTA MILIONI DI SESTERZI E NON ASCOLTÒ MAI UN     FILOSOFO. ‘STAI BENE’. ‘ANCHE TU’’.

Questa iscrizione termina con parole scambiate fra il morto ed il passante: "Stai  bene” dice il primo, "Anche tu" risponde chi leggerà, secondo una consuetudine ben documentata epigraficamente.

Trimalcione vuole essere sicuro che questo testo venga letto e adotta perciò un curioso stratagemma: fa porre sul suo monumento funebre un orologio “in modo che chiunque guardi l’ora debba leggere anche il mio nome, voglia o non voglia”, esclama durante la sontuosa cena offerta ai suoi amici, durante la quale annuncia il progetto di voler costruire un monumento funebre fastoso perché afferma che “è proprio un’assurdità averci da vivi le case eleganti, e non curarsene invece proprio quando ci dobbiamo abitare più a lungo”. Dopo la descrizione minuziosa fatta all’architetto incaricato di costruirla, aggiunge con un linguaggio che rispecchia la sua rozzezza: ”Starò attento che da morto non riceva qualche affronto. Con disposizione testamentaria metterò un liberto a guardia fissa della mia tomba, perché sul mio sepolcro la gente non venga a cacarci sopra.”

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