Fausto Bertinotti In Ucraina non ci sono innocenti
«Sa che nei giorni scorsi ho fatto una cosa molto interessante? Sono stato a Napoli, alla Whirlpool (la "r" è inconfondibile, ndr), a incontrare donne e uomini meravigliosi di tante aziende in crisi che continuano ad avere grande capacità di resistenza e di iniziativa, nonostante siano stati completamente abbandonati dalla politica».
La conversazione con Fausto Bertinotti si apre così, ché se al segretario del Partito della rifondazione comunista dal 1994 al 2006 chiedi quale sia la sua lettura di quel che sta accadendo in Ucraina, ti spiegherà che dietro al fatto che il Belpaese abbia oggi il record dei precari dal 1977, in fondo, c'è la medesima storia di un fallimento.
Quaranta giorni dall'inizio della guerra. Come si è potuti arrivare fin qui?
«Il quadro generale è quello di una globalizzazione capitalistica che ha visto falsificate le premesse e le promesse: l'idea, cioè, di una unificazione del mondo per la via del mercato dopo il crollo dei regimi dell'Est. Il mondo è ora incerto e instabile. Ha ragione il Papa: siamo a una terza guerra mondiale combattuta a pezzi. La guerra in Ucraina? C'è un colpevole, ma non ci sono innocenti».
Su chi sia il colpevole in pochi coltivano il dubbio. Perché dice non ci sono innocenti?
«La molla scatenante della guerra parla anch' essa della crisi della politica. Perché riemergono nella crisi fantasmi di un passato. C'è una logica di una potenza basata sul nazionalismo, una Patria bandita come arma contro le altre patrie, il ritorno al passato. E questo mette in luce l'altro fallimento, di quello che pomposamente si chiama Occidente, dell'area atlantica: gli Usa sono stati protagonisti della globalizzazione, che ha aperto alla crisi della democrazia».
Non è forse invece questa una guerra in favore della democrazia?
«Non mi pare difficile osservare che anche l'Europa è da anni dentro una tendenza di regimi di governo tecnici-oligarchici. È un rinsecchimento della democrazia, che si misura - come si diceva una volta - dalla gente che vota con i piedi, nel senso che non va a votare. Quasi metà degli elettori italiani disertano le urne. E il voto mi sembra essere il punto decisivo di una democrazia, no?».
E la globalizzazione che cosa c'entra?
«Ci tengo all'aggettivazione: globalizzazione capitalistica. Sull'economia si è compiuta la ristrutturazione della politica e delle sue istituzioni. La politica, cioè, è diventata governabilità. Che in sintesi significa essere interni sia alla logica di mercato sia della coalizione economico-militare. L'Europa si sta oggi rivelando per quello che è: nascondersi dentro l'alleanza atlantica non è niente altro che una manifestazione evidente del suo nanismo politico. Mentre ci sarebbe bisogno del suo patriottismo, ma non indotto. L'unico grande protagonista sulla scena è Francesco».
Lo stima tanto che viene da chiederle se si sia convertito.
«Non vado a messa, non sono credente. Ho sempre guardato con grande interesse, però - come chiunque si sia occupato di vita sociale e politica così a lungo -, all'esperienza del cattolicesimo che è imprescindibile, ovviamente, in Italia. Faccio parte di una generazione di militanti del movimento operaio che ancora ricordano quando Giovanni XXIII aprì la Chiesa al mondo con il Concilio».
Insomma è la figura del Papa che da sempre la affascina.
«Beh, non mi faccia fare una classifica dei pontefici. Papa Francesco indubbiamente è oggi una delle rarissime voci autorevoli di pace nel mondo. E le sue encicliche parlano di una valorizzazione umana che è una critica all'economia esistente: non siamo obbligati, dice esplicitamente, a subire la dittatura del profitto. Ora le cito una frase di Bergoglio che mi è rimasta impressa e che le so dire quasi testualmente».
Prego.
«Ha detto che una società in cui c'è un contadino senza terra, un lavoratore senza dignità nel lavoro, donne e uomini senza un tetto sotto al quale abitare, è una società inaccettabile. E occorre lottare per cambiarla».
Invasione di campo?
«No, la pastorale di un grande Pontefice. È il messaggio cristiano. Affascinante».
Resta ancora comunista, Bertinotti, vero?
«Certo».
E della Cina di oggi che dice?
«Le rispondo ricordando che una sinistra eretica a cui ho appartenuto quando l'Unione Sovietica era al massimo delle sue forze la definiva con il termine "socialismo reale" per distinguersi da essa. Vale oggi, si figuri allora. Che cos' è la Cina se non economia di mercato anch' essa?».
Non è utopia lottare oggi contro il mercato?
«Sì, se rimaniamo dentro il quadro istituzionale. Non se ci affidiamo ai movimenti. Lei è giovane, ma forse si ricorderà che all'inizio del millennio il Forum sociale di Porto Alegre, in Brasile, diede luce al movimento altromondista, dal quale nacque quello per la pace, contro la guerra in Iraq. Fu capace di schierare in un solo giorno 100 milioni di persone nelle piazze del mondo, si rende conto?».
Oggi non si vedono piazze piene.
«Ne avremmo tanto bisogno. Guardi che il sistema di accumulazione capitalistica è molto esposto alla crisi. La crisi sociale è drammatica. Io credo che mai ci sia stata nel dopoguerra italiano una situazione in cui il lavoro è a tal punto ridotto a ventre molle della società».
Possibile fermare con le piazze un'escalation militare di tale portata?
«Il problema è che oltre ai danni incomparabili della morte di migliaia di persone, anche le comunicazioni di massa sembrano essersi costruite come fossero in guerra. C'è un arruolamento ideologico, politico, culturale».
Su tutti i media?
«La televisione in particolare, che sembrava essere stata messa in crisi dai social network, in questo conflitto sta riacquistando potenza. E penetra attraverso un'inflazione di informazioni e con una sistematica ripetizione di argomenti. Chi fa comunicazione ha preso il posto dei partiti, ormai inerti e portati dal vento soltanto al governo, che li calamita».
Dice che è tanto difficile essere critici, oggi?
«Un vecchio amico dalla lunga storia politica mi faceva notare quanto sia curioso che se deve dire la sua deve fare prima la premessa che Putin è colpevole. Una volta indossata questa sorta di corazza difensiva (ride) gli è concesso di parlare. Io la penso molto diversamente dal pensiero corrente».
Riassumendo?
«A: non c'è una guerra giusta. B: non si prepara la pace con la guerra. C: la politica utilizza un codice imparato in tempo di Covid: imita il linguaggio degli esperti e si perde. Non che non si possa parlare di armi, ma è questione di priorità. Se la deterrenza sono le armi, usiamo la stessa logica di chi ha scatenato la guerra».
Come se ne esce, invece?
«Con la primazìa della politica di pace».
Cioè?
«Trattativa, trattativa, trattativa».
Mario Draghi ha chiesto il cessate il fuoco a Putin. Qualche giorno prima ha detto che Putin non vuole la pace. Non è per questo che la Ue sta finanziando la guerra?
«Attribuire al nemico il rifiuto di trattare significa far diventare il conflitto un conflitto di civiltà, tra democrazia e autocrazia. Negare una volontà del nemico impedisce la risoluzione di pace. Israeliani e palestinesi, benché attaccati e con territori occupati, si disposero alla trattativa. Ci riuscirono. Tanto che ad Arafat, Peres e Rabin fu assegnato il Nobel per la pace. Poi l'accordo fallì, certo, ma per altre ragioni».
Abbiamo approvato l'aumento delle spese militari con voto di fiducia.
«La guerra è la sostituzione della politica, non certo la sua prosecuzione. Perché è sopraffare, vincere, distruggere. Il compromesso invece, quando si tratta di Stati, è un termine nobilissimo. Il problema è poi anche far sì che la guerra non possa tornare. E per questo ci vuole un'Europa davvero autonoma dalla Nato».
Dotata di un suo esercito?
«No, al contrario, fondata su un'idea nuova: un'autorevolezza basata sul canone della cooperazione».
L'ha stupita la sinistra con l'elmetto?
«La sinistra istituzionale è diventata liberale - mi sembra molto difficile da contestare - e, ora, organicamente atlantica. Si è dissolta sulla governabilità. L'impianto politico che giustificò la sinistra, e cioè la critica al mercato, è stato totalmente dismesso. La cosa è aggravata dal fatto che la tradizione pacifista e neutralista ha tutte le sue origini alla sinistra italiana. Socialista, comunista, e pure cattolica. Non ha eredi, però, nell'arco costituzionale di oggi. Per questo le dico che è stato un dispiacere, ma non una sorpresa».
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