E se decidessimo di non votare più?”. La domanda, tutt’altro che non formulabile, apre l’editoriale di Paolo Mieli sul Corriere della Sera del 21 ottobre. Si potrebbe dire, anzi, che essa vive in un’attesa non dichiarata, perché non dichiarabile, di una parte dell’opinione pubblica che conta. È l’altra faccia dell’astensione di massa emersa col voto delle amministrative. In esso, il fatto politico c’è tutto: il 56% degli elettori non ha votato, cioè non ha votato la maggioranza dei rappresentati.

Si può provare a passare oltre, ad accantonare il fatto, ma i fatti hanno la testa dura. C’era già stato chi suggerisce di “sopire, troncare, padre molto reverendo, troncare, sopire”. Se il fatto è un segnalatore di incendio, in questo caso l’incendio è della democrazia rappresentativa, e allora esso diventa indicativo proprio del problema di società che ci sta dinanzi. Difficile certo da accettare perché chiede alla politica un cambio del suo intero impianto teorico-politico. Se è accolto, infatti, esso condurrebbe ad accettare che la fine del secondo dopoguerra si è compiuta e che siamo di fronte a una crisi di una concezione della democrazia rappresentativa, quella che si era affermata e spinta oltre i confini dettati dalla rivoluzione liberale, illuminata dall’orizzonte di quella democrazia progressiva inscritta nella Costituzione, fondata sulla partecipazione e sull’inclusione dei ceti fin lì esclusi: i ceti popolari. Finita quella storia, il gambero è ormai prossimo alla sua meta, ridurre la democrazia al suo simulacro.

Nell’analisi del voto, ogni sforzo di ridurre a fisiologia una crisi patologica non regge. Il voto amministrativo è diverso da quello politico, ma quanto diverso oggi rispetto alle dinamiche di fondo? Il ballottaggio, nel quale si è registrato un ulteriore crollo della partecipazione, ha sempre visto una flessione ulteriore, ma qui già il primo turno aveva mostrato l’abbandono. Andrebbe anche ricordata la retorica sulla democrazia dei sindaci, quella con un sistema elettorale che avrebbe dato luogo direttamente al riconoscimento del vincitore e alla stabilità del governo. Ora, è questa nuova frontiera a franare. Ancora più evidente è il dato saliente del primo turno. Tra i poveri, tutti i diversamente poveri, c’è il maggiore rifiuto del voto. Mentre si profila così una democrazia di censo, in un sistema che mostra una forte vocazione al governo tecno-oligarchico, si acutizza nella società un’altra linea di faglia. L‘interrogativo di Paolo Mieli vive, seppur sorvegliato affinché non diventi politico, quindi direttamente espresso, in un atteggiamento presente tra una quota non trascurabile dei votanti che si riassume così: la politica dei partiti ha condotto alla crisi della politica, il Parlamento mostra ormai tutta la povertà della sua rappresentanza, allora teniamoci per l’oggi, e magari anche per il domani, l’uomo della necessità. Appunto, non una scelta, ma una delega. Così è stato salutato l’esito del primo turno con un “ha vinto Draghi”.
 

Tra il popolo degli abissi che ha animato il non-voto, il disagio sociale, le inquietudini, le difficoltà del vivere quotidiano hanno portato a tutt’altra propensione, una propensione che oscilla tra l’indifferenza dell’abbandonato che, a sua volta, abbandona, e il rancore. Lo Zingarelli ci dice, tra l’altro, che il rancore è un sentimento di astio per un torto ricevuto. Il punto è proprio qui: per un torto ricevuto. Viene sempre in mente quando ci si interroga sulla crisi del rapporto tra la politica e il popolo, la domanda di Thomas Eliot: “È la chiesa ad aver abbandonato il popolo o il popolo ad aver abbandonato la Chiesa?”. È una domanda capitale per la politica. In questo nostro tempo, tempo lungo ormai più di un quarto di secolo, è la politica ad aver abbandonato il popolo, e il popolo, abbandonato a sé, si è disunito, disarticolato, disgregato fino a configurarsi come un insieme di individui che abitano nel mercato.

Nella crisi della politica, nella sua separazione dal popolo, un discorso a sé, di enorme portata, richiederebbe il rapporto tra le sinistre e la classe operaia, la vicenda del Movimento operaio. È un discorso irrinviabile e senza far luce sul quale, anche il primo, quello tra la politica e il popolo, è destinato a restare muto. Vale, secondo me, anche per lui la risposta data al quesito di Eliot. Le crisi dell’ideologia e delle grandi istituzioni del Movimento operaio hanno lasciato la classe operaia senza la coscienza di sé, senza la coscienza di classe, e senza le sue grandi istituzioni. Restano sul campo, ridimensionati, gli operai, immersi tra le lavoratrici e i lavoratori che formano una compagine destrutturata, che va dalla schiavitù alle altre professioni, passando per quella precarietà, se ce n’è una, che se ce n’è una, è la cifra del nuovo mondo del lavoro, colpita da tanti torti, con tante ragioni negate o compresse, senza che possano per ora prendere la forza di una coalizione e di un programma. Eppure, è lì, in quel crogiuolo di lotte, che vanno cercati i sentieri oggi e le strade domani, di un nuovo protagonismo sociale e politico, senza farsi impedire nella ricerca dalle contraddizioni interne e da esperienze che persino si negano e contraddicono la ricerca di un impegno per l’uguaglianza. Questi c’erano persino ai tempi dell’ascesa del Movimento operaio, figurarsi ora! Ora, il ventaglio del mondo del lavoro arriva sino a comprendere gli opposti.

La lotta di Trieste, appunto, non è quella dei campi di Bisenzio, dico di un luogo e non di un soggetto, i portuali di Trieste, perché mi convince molto l’analisi che sulle vicende ha condotto uno studioso della competenza e della qualità come Sergio Bologna, che ha saputo vedere la differenza tra il conflitto sindacale incentrato sul lavoro e la mobilitazione politica della piazza. Quella lotta, su cui riflettere criticamente, è l’opposto di quella dei lavoratori del Gkn, del loro collettivo di fabbrica, e della loro capacità di socializzazione del conflitto. Si tratta di due forme di politicizzazione del conflitto tra loro opposte, delle quali una sola è promettente. Entrambe, però, parlano del lavoro politico da fare per la ricostruzione di una sinistra sociale e politica che affronti la grande contesa, ma non si può sfuggire alle domanda: perché la sinistra politica non c’è né là, né qua, e non si vede neanche attivare con il lavoro politico che ha nomi storici, come l’inchiesta partecipata, o nomi nuovi da trovare per definire pratiche nuove di contestazione, di contrattazione, di autogoverno e di contropotere?
 

Forse, perché persino negandoselo c’è chi pensa, problematicamente, alla domande del Corriere della sera, o forse perché i risultati delle elezioni delle diverse forze politiche inducono al contrario a tornare, con ancora maggiore convinzione, al problema del governo, del proprio governo. Il centrosinistra vince, le destre perdono di brutto, il populismo politico diventa gregario, Draghi resta indispensabile, ma potrebbe rivelarsi utile anche in un altro ruolo rispetto a quello attuale, quello di garante verso l’Europa, verso l’economia e le finanze interne, verso le classi dirigenti del Paese, garante nei confronti di un governo di centrosinistra sul solco tracciato da questo stesso suo governo. Dimenticato l’astensionismo di maggioranza, omesso il conflitto sociale, assunta la tesi che la ripresa economica sgocciolerà fino a lenire il disagio sociale, torna o almeno fa capolino il vizio assurdo della sinistra politica, di una sinistra senza popolo, cioè l’ossessione del governo. Se, al contrario, guardi a come il popolo si è espresso nel non-voto, se guardi al disorganico ma risorgente conflitto del lavoro, se guardi alla complessa e contraddittoria dinamica dei movimenti, mai riducibili a uno, non puoi non vedere che quella è una via senza rinascita e che invece la cifra dura della realtà è l’instabilità.

L’instabilità è nei processi di fondo che attraversano il mondo e l’Europa, ma l’instabilità è anche nella relazione incertissima tra una politica separata e debole e dall’altra parte una dinamica imprevedibile dei movimenti di fronte alla crisi sociale ed ecologica. Quel che è evidente è la loro natura complessa, plurale, articolata, in cui si mescolano il grano e l’olio. Il loro carattere è discontinuo, carsico. Si separi da loro, com’è necessario, l’infiltrazione, l’orrenda azione neofascista, che è un fenomeno a sé, da combattere come tale e per il suo retroterra sempre inquietante, resta ciò che deve restare. Resta l’insieme delle lotte che possono su un fatto imprevedibile diventare movimento. Non si danno servitori a due padroni: governabilità e conflitto non stanno insieme. Per la prima, le soluzioni sono più dure, ma ormai dentro un quadro circoscritto al cui interno c’è l’assetto tecnico-oligarchico.

Per rinascere, la sinistra dovrebbe collegarsi fuori da questo quadro. Verso dove, lo ha suggerito bene Judith Butler, quando l’ha indicato in un certo noi: “Il “noi siamo qui”, che traduce la presenza corporea, collettiva, può essere reinterpretato come “noi siamo ancora qui”, nel senso di “non siamo ancora stati gettati via”. Non ci siamo silenziosamente rintanati nell’ombra della vita pubblica”.

Fausto Bertinotti

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