di Maria Pellegrini

Leggo da un articolo di Roberto Ciccarelli (il manifesto 27 giugno) questa disarmante notizia: «L’Istituto Nazionale di Statistica ha confermato il record di poveri assoluti in Italia: sono 5 milioni e 58 mila individui, il numero più alto dal 2005. Crescono anche i poveri relativi, coloro che pur avendo un lavoro arrivano con difficoltà alla fine del mese: nel 2017 erano 9 milioni 368 mila individui (il 15,6% contro il 14% del 2016). Più si è giovani, under 35, più si è poveri. L’indigenza è aumentata soprattutto a Sud, nelle grandi città e nei centri fino a 50 mila abitanti. Il fenomeno è tuttavia presente anche nei centri e nelle periferie delle aree metropolitane del Nord». Di queste notizie non si dà un rilievo adeguato, spesso seguendo i programmi e la pubblicità in televisione non si ha l’impressione di una situazione così drammatica. Per fare un esempio, durante gli ultimi anni su tutte le reti televisive sono stati messi in onda lunghi e molto seguiti programmi di cucina con l’esibizione di cuochi provetti o principianti alle prese con ricette per manicaretti a base di carne, pesce, verdure, dolci in tutte le lavorazioni possibili, innaffiati dal vino adatto suggerito da esperti sommelier. Leggendo le statistiche sulla povertà oggi diffuse, è automatico il pensiero che mentre in certi ambienti ci si può permettere di soddisfare ogni tipo di piacere della tavola, tante persone sono in fila davanti alle sedi della Caritas. «Niente di nuovo sotto il sole», dice un proverbio, infatti anche nell’antichità romana c’erano tali disparità di condizioni sociali, documentate da storici, poeti e filosofi che tentarono di mettere un freno all’eccesso del lusso anche quello della tavola. Si emanarono pure leggi, indicate da Catone come “leges cibariae”, per limitare le spese per le cene e i conviti pubblici e privati.

Quando Roma, sconfitta Cartagine, si afferma come massima potenza del Mediterraneo occidentale ed entra in contatto con le civiltà greche e con l’Oriente, si aprono nuove prospettive di arricchimento e di trasformazione sociale. Parallelamente all’espandersi dello Stato e della potenza romana, attraverso la voce di importanti autori latini veniamo a conoscenza delle mutate abitudini alimentari di quella parte della società privilegiata per nascita, cariche politiche, o per censo, frutto di affari della nuova classe imprenditoriale (gli “equites”) che si stava affermando. La ricchezza e il benessere erano però concentrati nelle mani di pochi mentre la gran parte dei cittadini versava in uno stato vicino all’indigenza, per non parlare del destino degli schiavi considerati una merce, un patrimonio, uno strumento di lavoro.

Anche al tempo di Cesare (I sec. a.C.) la plebe urbana vive in condizioni di miseria estrema, ammassata in casamenti alti una ventina di metri, costruiti senza alcuna cura, sempre col pericolo di crolli e sprovvisti di cucine adeguate, mentre i ceti privilegiati sono abituati a cene e conviti, anche se ancora non alberga in essi il cattivo gusto, la rozzezza degli ospiti e degli anfitrioni. Il convito è ancora l’incontro piacevole di amici per conversare e godere di gradevole cibo e ottimo vino in un’atmosfera elegante ed elitaria.

Tacito negli Annali sostiene che l’arte culinaria a Roma aveva raggiunto la sua acme negli anni intorno alla battaglia di Azio, lo conferma Orazio nella satira II, 4, in un dialogo con un interlocutore - di cui non è sicura l’identità - che fa sfoggio di raffinata scienza gastronomica. Il monologo di questo cultore della buona tavola si snoda con l’elenco di precetti per una sapida cucina e sulla qualità degli ingredienti: quale siano le uova migliori, come rendere tenera la carne di una gallina per un ospite capitato all’improvviso, dove si trovano le migliori ostriche o ricci, quali pesci si adattino a essere arrostiti e con quale salsa è bene accompagnarli. Si prosegue con cinghiali, lepri, prosciutto, salsicce e molto altro ancora. La satira dimostra come inizi a serpeggiare in Orazio il disgusto per l’eccesso e la priorità data al piacere del cibo e alla ricchezza e la sua voce si leva per consigliare la misura in ogni scelta (“modus in rebus”). Allora ribadisce il suo ideale di vita semplice e modesta; rivolto allo schiavo che gli sta preparando la tavola afferma deciso di odiare il lusso dei banchetti persiani (tutto ciò che viene dall’Oriente è sfarzoso ed eccessivo). Trapiantato a vivere nella tumultuosa e cosmopolitica capitale dell’impero, il poeta non ha dimenticato le sue origini agresti, le sue prime esperienze vissute nella campagna apulo-lucana. In una satira descrive la sua semplice cena a base di ceci e di porri, nonché di lagane (una sorta di frittelle). Quando va al mercato si informa sui prezzi di prodotti che testimoniano la sua vita frugale:

«Da solo passeggio, chiedo quanto stanno orzo e farro,

bighellono tra gli imbroglioni del circo e spesso

nel foro, la sera, e mi fermo dagli indovini. Poi

torno casa davanti a un piatto di porro, ceci e frittelle».

ll tema della frugalità del cibo compare anche nella satira che inizia con il verso «Quale e quanta virtù, miei cari, sia viver di poco», sono le parole di Ofello il colono, un uomo semplice ma dotato di naturale buon senso, la sua cucina si avvale di ciò che produce la fattoria:

«Nei giorni di lavoro, a caso, in un giorno feriale

io non ho mai mangiato altro che legumi e zampa di porco

affumicata; ma quando dopo tanto tempo veniva un ospite

o gradito un vicino in un giorno di pioggia o per mancanza

di lavoro allora sì, che ci si dava alla pazza gioia,

non con pesci comprati in città, ma col pollo e il capretto;

poi uva passa, noci e fichi secchi allietavano le mense».

La cena di Nasidieno Rufo, cantata da Orazio in una delle Satire è divertente parodia del banchetto greco nella Roma dei ricchi.  È satira sociale. L’anfitrione, personaggio forse reale o più probabilmente inventato, ama dare cene sontuose. La descrizione è ricca di piatti molto elaborati: fegato d’oca bianca riempito con fichi, quarti di una gru cosparsa abbondantemente di sale e di farro, spalle di lepre, petti di merlo arrosto e colombi senza cosce. Ma alla fine gli invitati fuggono «non vogliono assaggiare più niente» disgustati da quella cena ricca ma priva di buon gusto.

L’imperatore Augusto invece era di gusti semplici: gli piaceva il pane di farina non raffinata, pesciolini marinati, formaggio vaccino, fichi freschi o secchi di cui si cibava in qualsiasi ora del giorno quando lo stomaco lo richiedesse. Svetonio ricorda la sua frugalità nel cibo e riporta frasi tratte dalle alcune sue lettere:

«Abbiamo gustato, in carrozza, pane e datteri». «Tornando dalla basilica verso casa, ho mangiato in lettiga un’oncia di pane, con qualche chicco d’uva duracina». «Neanche un giudeo, caro Tiberio, osserva il digiuno del sabato come l’ho osservato io oggi, che soltanto dopo l’ora prima di notte, ho mangiato due bocconi prima di cominciare a ungermi nel bagno».

Il biografo ci informa ancora sulla sua sobrietà nelle cene che offriva e anche nel bere vino:

«Offriva di solito una cena di tre portate e quando la voleva molto abbondante, una di sei, senza eccessiva spesa ma con estrema cordialità. […] Gli piaceva moltissimo il vino di Rezia, ma raramente ne beveva durante il giorno. Quando aveva sete, invece di bere mangiava del pane inzuppato d’acqua fresca, o una fetta d’anguria, o un cespo di lattuga, oppure un frutto, fresco o conservato».

Anche Livio denuncia l’ingresso in Roma del simposio greco orientale come una delle manifestazioni di corruzione dei costumi morali a Roma.

«Il primo germe della corruzione straniera fu portato a Roma dall’esercito d’Asia. Furono quei soldati a introdurre a Roma letti di bronzo, tappeti preziosi, cortine e altri addobbi. […] Allora si aggiunsero ai banchetti ballerine e musiciste, suonatrici e persino intrattenimenti conviviali di animatori […]. Ma gli stessi banchetti cominciarono ad apprestarsi con una cura e una spesa maggiore».

Nonostante si tenti di moralizzare i costumi con leggi contro il lusso, persiste la ricerca dei piaceri della vita e di ricche libagioni. Al tempo di Tiberio, successore di Augusto, vive Apicio (14-37 d. C.), un patrizio gaudente e buongustaio, appassionato di particolarità gastronomiche, noto per un ricettario pervenuto non nella struttura originaria, nel quale si deducono le sue predilezioni per la selvaggina esotica; intratteneva infatti i suoi ospiti offrendo il pappagallo o i fenicotteri arrostiti, l’utero di scrofa ripieno, ghiri farciti.

Per gli eccessi e i fasti dei lussuosi conviti di età imperiale e per l’abilità dei cuochi romani - che nulla ha da invidiare ai moderni chef in bella mostra a ogni ora del giorno sugli schermi della televisione - dobbiamo ricorrere ancora a autorevole scrittore latino: Petronio di età neroniana; nel suo Satyricon dà puntuale testimonianza del cattivo gusto degli arricchiti nella celebre descrizione della Cena barocca e scenografica offerta da Trimalchione, un liberto che vuole stupire i suoi ospiti con un’interminabile serie di portate, una più stravagante dell’altra, presentate con una coreografia teatrale. L’abilità dei cuochi di età imperiale non consisteva nella capacità di esaltare i sapori naturali delle pietanze quanto nella maestria di mascherare gli alimenti ricoprendoli con salse e spezie. Lo sguardo di Petronio è ironico e pungente sull’ascesa sociale dei liberti, che esibiscono sfacciatamente e con cattivo gusto la loro ricchezza, in contrato con la povertà della gente comune. Infatti tra i commensali di Trimalchione, i clientes del munifico ospite, circolano discorsi che denunciano l’altro aspetto della società. Parla un tale di nome Ganimede:

«Nessuno si cura della carestia che mozzica. Oggi perdio non ho potuto trovare un boccone di pane. La siccità non finisce mai! è già da un anno che siamo affamati. Gli venga un colpo agli edili che intrallazzano coi fornai: ‘Aiutami tu che t’aiuto io’. E intanto il popolino tribola, ché per questi ganascioni è sempre carnevale… Ahiahi, ogni giorno peggio! Questo paese cresce all’ingiù, come la coda d’un vitello. Ma perché dobbiamo avere un edile che non vale un cavolo, e gli sta più a cuore un quattrino che la nostra pelle? E così a casa lui scialacqua, e in un giorno piglia più soldi di quanti ce n’ha un altro nell’intero patrimonio… Per parte mia mi sono già mangiato i quattro stracci che avevo, e se continua la carestia vendo pure le mie catapecchie».

Se Petronio narra disincantato e ironico, il filosofo, a lui contemporaneo, Seneca critica la sregolatezza dei costumi, attribuendola alla crisi morale della società, e anche alla perdita della antica parsimonia nelle abitudini alimentari. Così esplicitamente esclama:

«O miserabili quelli il cui palato non è stuzzicato che dai cibi più costosi! Costosi per la loro rarità e per la difficoltà di procurarseli. Ma se tutta questa gente volesse tornare alla ragione, che bisogno c’è di tante arti al servizio del ventre? Perché devastare tante foreste? Perché scandagliare il fondo del mare? Dappertutto si trovano cibi che la natura ha distribuito in tutti i luoghi».

Mentre la plebe fatica a trovare cibo con cui sfamarsi, nei palazzi imperiali si gozzoviglia. Svetonio, di età più tarda, nelle biografie dei primi dodici imperatori, documenta che Nerone «fa durare i suoi banchetti da mezzogiorno a mezzanotte» e che «oltre quattro milioni di sesterzi per la sola decorazione floreale» furono sperperati in un convito, dove è ospite l’imperatore. Non si riuscì durante l’impero ad arginare l’eccessivo fasto nel cibo e nelle spese voluttuarie e a tornare alla temperanza e semplicità delle origini.

Epitteto, esponente dello stoicismo di epoca romana, vissuto sotto l’impero di Nerone, dei Flavi con molta severità scrive:

«È segno di stupidità trascorrere gran parte del tempo a occuparsi del proprio corpo, esercitando i muscoli, mangiando, bevendo, defecando e copulando. Queste cose andrebbero fatte incidentalmente e si dovrebbe piuttosto dedicare tutta l’attenzione alla mente».

Senza dubbio tale atteggiamento di poeti e filosofi poteva essere dettato da un’etica conservatrice, diffidente nei confronti dell’evoluzione economica, dell’allargamento dei mercati, dell’importazione di prodotti stranieri che cambiavano i costumi e le abitudini tradizionali, ma essi consideravano l’eccesso di raffinatezza causa di decadenza, e le nuove inquietanti forme di lusso e di ricercatezza pericolose per gli equilibri sociali.

Nota nell’immagine: Affresco pompeiano del I sec.d.C.

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