IL DESTINO DI ROMA di Kyle Harper
Sul crollo dell’Impero romano e sulle sue cause sono stati scritti numerosi volumi e diverse sono le motivazioni per giustificare la sua caduta. Kyle Harper, docente di Lettere classiche all’Università dell’Oklahoma nel suo saggio IL DESTINO DI ROMA con sottotitolo. Clima, epidemie e la fine di un impero (Einaudi,2019, pp. 512, € 34,00) sostiene che il destino di Roma fu portato a compimento non solo per la politica incauta degli imperatori, per la calata dei barbari o per le carestie, ma fu deciso anche dalla instabilità climatica e dalla violenza della natura che scatenò eruzioni vulcaniche, maremoti, glaciazioni. Altro motivo fu il propagarsi di virus e batteri devastanti che sfociarono in violente epidemie comprese solo in tempi recenti grazie a tecniche avanzate lo studio del DNA conservato in ossa sepolte decine di secoli orsono. Harper suggerisce quindi altre cause per spiegare il disfacimento di una struttura millenaria che riuniva in sé quasi tutto il mondo allora conosciuto e che sembrava immortale.
Da un punto di vista climatico il grande sviluppo dell’Impero coincise con un periodo di tempo stabile, definito “l’optimum climatico”, caldo e umido, che dominò nel Mediterraneo all’incirca dal 200 a. C. al 150 d. C. generando prosperità e aumento della popolazione ma anche grande densità abitativa delle città che divennero terreno fertile per la diffusione di malattie. Harper passa attraverso un’analisi minuziosa dei periodi nei quali i fenomeni distruttivi si produssero, con periodi di resilienza - cioè di reazione e di riorganizzazione - fino al crollo definitivo dell’Impero. Il primo di tali momenti avvenne all’epoca di Marco Aurelio quando una pandemia interruppe l’espansione economica e demografica del sistema.
Fra il 160 e il 180 d. C. sull’Impero si era abbattuta la cosiddetta “peste antonina”, la prima grave piaga (documentata con fonti storiche e non solo leggendarie) così chiamata dal nome dell’imperatore allora in carica, Marco Aurelio (membro appunto della famiglia Antonina). Fu un’epidemia che colpì con violenza le truppe stanziate ad Aquileia, diffondendosi poi in tutto il mondo romano. L’esercito stesso fu devastato. Si trattava di peste e probabilmente di vaiolo che fece almeno dieci milioni di vittime. Già al primo diffondersi della malattia provocò un elevato numero di morti, fra cui alcuni molto illustri, come l’imperatore Lucio Vero. Ancora peggiore però fu la seconda ondata che arrivò nove anni dopo, nel 177, quando si giunse a toccare punte di 2.000 morti al giorno nella sola città di Roma. La peste avrebbe imperversato per quasi 30 anni, facendo molti milioni di morti. La malattia uccise circa un terzo della popolazione in alcune zone, e decimò l'esercito romano. Eppure l’Impero sopravvisse, «ma l’era delle pandemie era ormai arrivata e nei futuri incontri con nuovi germi l’Impero non sarebbe stato del tutto all’altezza delle sfide che la natura aveva in serbo». così scrive Harper seguendo la sua narrazione delle epidemie che sarebbero seguite.
Dopo gli Antonini si affermò la dinastia dei Severi, durante la quale si poté notare una nuova fioritura culturale ed economica. Sotto la loro dinastia l’impero recuperò il proprio equilibrio. Ma la natura stava preparando una nuova pestilenza accompagnata da turbolenze climatiche. Tra il 250 e il 260 d. C. sotto l’imperatore Valeriano che aveva associato al governo il figlio Gallieno, divampò la “peste di Cipriano”, che deve il suo nome al vescovo di Cartagine che ce ne ha lasciato una drammatica descrizione. In una sua celebre lettera, “Ad Demetrianum” tratteggia un quadro desolante: «In primo luogo devi sapere che il mondo è invecchiato e non si sorregge più grazie a quelle forze con le quali si era retto in precedenza e che non ha più quel vigore e quella forza sulle quali prima poggiava […] Non ci sono più così tante piogge in inverno per nutrire le sementi, non c’è più il solito calore in estate per far maturare i frutti, né la primavera gode più del suo bel clima, né l’autunno è così fecondo dei prodotti degli alberi». Per la prima volta abbiamo una testimonianza cristiana che denuncia anche le cambiate condizioni climatiche. La patologia descritta da Cipriano presentava «affaticamento, feci sanguinolente, febbre, lesioni esofagee, vomito, indebolimento dell’udito, seguito da lì a poco da cecità» Il bilancio delle vittime fu pesante.
Rispetto alle pandemie e alle turbolenze climatiche che l’impero aveva conosciuto, il IV secolo fu un intermezzo di serenità. Il ruolo dell’ambiente fu significativo. Non si era tornati all’ Optimum climatico romano ma un clima di caldo temperato favorì la crescita e il benessere. Harper prosegue alternando vicende storiche del tardo impero con le condizioni climatiche. Si accentua la mortalità dovuta a ondate di batteri e a malaria anche se spicca l’assenza di un catastrofico evento epidemico. Si deve arrivare nell’età di Giustiniano (imperatore dal 527al 565) per vedere apparire per la prima volta la pestilenza più grave, la peste bubbonica, che mise in ginocchio quel che restava dell’Impero romano d’oriente, quello di Bisanzio.
La pandemia si estese nei territori circostanti, uccidendo complessivamente un quarto degli abitanti delle regioni del Mar Mediterraneo occidentale, non si trovavano luoghi dove seppellire i morti e i cadaveri dovevano spesso essere lasciati all'aperto. La peste causò la morte di 25 milioni di abitanti solo nell'impero bizantino.
Appena prima, nel 536, le cronache registrarono l’“anno senza estate”: il sole appariva sempre velato, i raccolti stentati. Era l’inizio della “Piccola glaciazione” della tarda antichità, innescata da una serie di eruzioni vulcaniche le cui ceneri velavano l’atmosfera e sostenuta da una secolare diminuzione dell’attività solare da suscitare l’idea dei primi medievali che la fine del mondo fosse vicina. Lo testimoniano le parole di Gregorio I Magno che scrisse nei “Dialoghi”: «In questa terra che abitiamo il mondo non annuncia ma manifesta con tutta evidenza la sua fine».
«La fine dell'impero di Roma – conclude Harper - rappresenta pertanto un momento storico in cui l'umanità e l'ambiente risultano inscindibili. O meglio, rappresenta un capitolo della storia ancora in evoluzione del nostro rapporto con l’ambiente. Il destino di Roma potrebbe servirci da memento del fatto che la natura è astuta e capricciosa».
Harper dimostra che le vere cause furono il cambiamento climatico, che impattò sulla produzione di cibo, e le pandemie. Non è una tesi sorprendente: si sapeva della presenza di queste condizioni negli ultimi secoli dell’Impero. Ma gli storici ragionavano a partire dal «tacito presupposto che l’ambiente fosse un contesto stabile e inerte alla storia». La caduta dell’impero rappresentò invece proprio il trionfo della natura sulle ambizioni umane.
Harper intreccia una solida narrazione storica con la scienza del clima e le scoperte della genetica offrendo al lettore un quadro molto ricco di argomenti e del tutto nuovo sulle catastrofi climatiche, sul loro insorgere e sul modo con cui furono affrontate dagli imperatori. Il volume ha in Appendice una ricchissima bibliografia, note al testo e indice dei nomi.
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