Tra propaganda e realtà. Si è tentato di far scordare gli ultimi 8 anni di conflitto. Tutto ciò che si è detto e scritto sulle operazioni militari è, a oggi, smentito di Fabio Mini Il Fatto Quotidiano 3 giugno 2022 
La prima cosa che appare chiara, dopo 100 giorni di guerra in Ucraina, è che tutto ciò che si è detto e scritto sulle operazioni militari russe è saltato. Una volta di più, si è dimostrato che la narrazione della guerra segue logiche e grammatiche diverse dalla realtà, per non parlare della verità. Il giochetto della propaganda, antico come il mondo, è infatti quello di attribuire all’avversario scopi e strumenti molto più alti di quelli effettivi, per giustificare sia una vittoria clamorosa sia una sconfitta onorevole, oppure per spaventare e ottenere con la paura ciò che non si avrebbe mai con la ragione. 
Le intenzioni strategico-politiche attribuite a Mosca, sin da prima dell’invasione e tuttora sostenute, si sono dimostrate sbagliate, eppure sono riuscite nello scopo che le baggianate dovevano conseguire: orientare la narrazione. La demilitarizzazione e la denazificazione annunciate dal presidente Putin come scopi politico-strategici, non riguardavano la debellatio dell’Ucraina o la purificazione della popolazione dal morbo nazista. La prima mirava a impedire che l’Ucraina diventasse parte di una alleanza militare ostile alla Russia (la Nato); la seconda perseguiva la “pulizia” della leadership e delle strutture di sicurezza dalle componenti neo-naziste che in pratica dal 2014 avevano assunto poteri anche istituzionali. 
Facendo partire la guerra dal giorno dell’invasione, si è tentato di far dimenticare gli otto anni precedenti durante i quali i vari governi ucraini hanno massacrato le popolazioni (ucraine) del Donbass colpevoli di essere legate a una propria lingua (del tutto simile a quella ucraina) e di volere una autonomia politico-amministrativa dal governo centrale. Un governo che nel 2014 si era insediato con un vero e proprio colpo di Stato manovrato da estremisti nazionalisti e russofobi sostenuti dagli Stati Uniti e dall’Unione europea. 
Si sono volute far dimenticare al mondo occidentale le palesi minacce e provocazioni da parte ucraina e della Nato dei precedenti 24 anni e in particolare degli ultimi quattro mesi, durante i quali è stata definita la strategia offensiva nei riguardi della Russia. 
L’Ucraina e gli Stati Uniti, con un accordo bilaterale “capestro” siglato nel 2008 e aggiornato a settembre del 2021, avevano oltrepassato la linea rossa che la Russia aveva tracciato tra minaccia e “minaccia esistenziale”. L’accordo è scritto in un linguaggio del peggior estremismo nazionalistico ucraino, della peggiore forma diplomatica e firmato dagli Usa in una chiara visione di confronto sia diretto sia mediato (da Ucraina e Nato) contro la Russia. Stando allo spirito, e soprattutto alla lettera di quell’accordo, non esisteva e non esiste tuttora alternativa alla guerra. La Russia doveva soltanto scegliere il modo di iniziarla e condurla. 
Ha scelto un modo molto classico e quasi arcaico: l’invasione con truppe corazzate e obiettivi limitati sul piano militare, per dare sicurezza al Donbass e concorrere agli obiettivi strategici. Quella che viene ancora oggi definita come una “invasione a tutto campo” una “aggressione” immotivata e non provocata sul piano militare è stata condotta con forze del tutto insufficienti a conseguire la conquista di tutto il Paese e meno che mai l’occupazione e l’espansione russa in Europa. “Dopo di noi toccherà a voi”, gridava il presidente Zelensky immediatamente acclamato e seguito (o perfino preceduto) su questa linea da tutti – o quasi – gli europei e americani. “Noi stiamo combattendo per voi”, tuonava il presidente incitando Usa e Nato a partecipare alla guerra con armi, sanzioni e miliardi di euro/dollari in nome dei valori condivisi. 
Battaglie condotte in modo quasi arcaico 
Se da un lato è molto dubbio (e perfino pericoloso) che l’Europa condivida i valori di questa Ucraina, dall’altro è assolutamente vero che essa stia conducendo una guerra per conto degli Stati Uniti. Le operazioni militari russe si sono immediatamente concentrate sulla parte del Donbass dove l’Ucraina dal 2014 aveva schierato truppe regolari e irregolari ben addestrate e armate dall’Occidente in versione anti-insurrezionale: carri armati e milizie contro la popolazione del Donbass e contro i cosiddetti separatisti. Questi ultimi erano (e sono) appoggiati dalla Russia in nome di una “responsabilità di proteggere” giuridicamente prevista, ma non riconosciuta alla Russia da ucraini, americani e consueto seguito. 
L’esercito e le forze di sicurezza interne dell’Ucraina potevano contare su circa 160 mila uomini alle armi ai quali si aggiungevano 16-20 mila “volontari” di varia natura e provenienza. Un terzo di queste forze era schierato a est del Dniepr, di fronte ai territori delle neo-repubbliche del Donbass; un terzo a nord della Crimea in preparazione dell’attacco alla penisola e Sebastopoli previsto dalla “piattaforma Crimea” del 2021 approvata e sostenuta dagli Stati Uniti; il restante era dislocato a difesa dei centri urbani e altri obiettivi sensibili. 
Mentre le truppe russe penetravano in Donbass su tre vie tattiche (Lugansk-Sloviansk, Donetsk-Dnipro e Mariupol- Zaporizha-Kherson) e attaccavano con artiglierie e missili obiettivi sensibili come Kharkiv, furono subito attivati i primi colloqui russo-ucraini per un cessate il fuoco. Un esercizio militar-diplomatico promosso da alcuni leader europei che probabilmente non avevano letto bene gli accordi bilaterali tra Usa e Ucraina, così come non si curano ancora di leggere quelli tra Ucraina e Gran Bretagna, tra Polonia e Ucraina, tra Paesi baltici e scandinavi e Gran Bretagna. 
L’azione dimostrativa di forza con i raid su Kiev 
Allo stesso tempo, la Russia avviò un’azione dimostrativa di forza inviando una forza corazzata su Kiev. Voleva essere un modo per influenzare i negoziati, orientare la politica di Zelensky verso un distacco dai suoi partner estremisti e soprattutto convincere le forze armate ucraine a un accordo. A Kiev, evacuata dalla maggior parte degli abitanti oltre che dalle ambasciate e dai “consiglieri militari” occidentali, ci furono bombardamenti in periferia, l’occupazione di alcuni centri suburbani e una sosta tanto forzata quanto minacciosa di una chilometrica fila di carri armati in puro stile Ungheria o Praga. Anche in questo caso venne propagandato l’imminente attacco alla città. Ed è stato smentito dai fatti. 
Le truppe russe si ritirarono quando fu chiaro che dai colloqui non poteva nascere niente, le forze armate ucraine non si accordavano, le milizie e la polizia ucraine controllavano la città, l’Occidente non intendeva trattare e anzi stava ottenendo nuove adesioni alla Nato, le truppe ferme per quasi un mese stavano perdendo motivazione e vite umane e, non ultimo, il fronte interno dei falchi del Cremlino criticava Putin per la scarsa volontà di usare la forza. 
Ovviamente il riposizionamento fu sfruttato dalla propaganda ucraina come una vittoria dell’eroica resistenza e di fatto convinse i leader ucraini e gli amici occidentali ad aumentare aiuti e sostegno militare in vista della cacciata dei russi dal territorio ucraino, Donbass e Crimea inclusi. 
La seconda fase: il Donbass priorità strategica 
Lo stesso si verificò quando i russi lasciarono la periferia est di Kharkiv. In realtà, l’affermazione della priorità strategica russa al Donbass rese possibile esercitare una pressione maggiore su tutta la regione. Inoltre, nonostante le forti perdite subite, tutta la parte sud-est fino a Mariupol e lungo la costa dei mari Azov e Nero era già controllata dai russi che furono ancor più motivati dal determinante chiarimento che la guerra non riguardava l’Ucraina, ma tutto l’Occidente contro la Russia. Così, infatti, si erano espressi gli ineffabili statunitensi Blinken e Austin, il britannico Johnson, il Segretario della Nato Stoltenberg e la Commissaria europea Von der Leyen seguiti dai vari Cip&Ciop della politica da salotto. 
Oggi il pendolo delle operazioni volge in favore della Russia, che metodicamente continua a spingere le forze ucraine dal Donbass al fiume Dniepr. Probabilmente si fermeranno lì, sul grande fiume dove lo Stato Maggiore ucraino ha già ordinato di costituire una linea difensiva innescando l’effetto “panico” (in italiano “Caporetto”) delle forze usurate dal punto di vista fisico e demotivate dalla resa della Brigata Azov. Il pendolo potrebbe tornare indietro con l’arrivo delle nuove armi americane e inglesi fra un paio di settimane. Ma potrebbe essere già tardi per recuperare terreno oppure troppo tardi per tutti. I russi stanno aspettando un razzo sul proprio territorio per scatenare la Terza guerra mondiale. Con o senza Putin.

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