La crisi della politica si supera con una rottura (di Fausto Bertionotti)
La scomparsa del protagonismo dei partiti in politica ha dilatato quello dei commentatori, dei giornalisti di rango, la cui influenza nel formarsi dell’opinione pubblica è assai accresciuta. La loro stessa natura sociale e culturale suggerisce tuttavia di diffidare delle previsioni che in questa relazione si vengono formando. C’è infatti qualcosa che in questo ambito resta sempre nascosto. Questo qualcosa potrebbe persino chiamarsi l’interesse del sistema. Nella recente elezione del presidente della Repubblica, le tanto indagate relazioni tra i partiti e l’interno di essi, a cui si guardava per scorgere l’esito finale della vicenda, sono risultate al fine tutte mute.
Il voto della politica e l’istanza forte di stabilità che promana dal sistema socio-economico esposto sistematicamente alle crisi hanno reso indispensabile ritornare allo status quo ante che, a sua volta, era stato posto in essere dalla crisi e dal fallimento della politique politicienne. Le soggettività politico-partitiche erano state azzerate per dare luogo al governo dei due presidenti. Perdurante il vuoto della politica, lì si doveva necessariamente tornare. E adesso? Si fa strada l’idea che l’avvicinarsi delle elezioni politiche, che formeranno il nuovo Parlamento, cambierà il quadro, quasi che l’evento possa trasformarsi in un elemento salvifico della politica. L’illusione si era già manifestata con la nascita del governo Draghi quando, coperti dalla sua esistenza, i partiti avrebbero dovuto trovare la capacità di iniziativa prima persa. Non è accaduto ieri, non accadrà domani.
La salvezza della politica non può venire dal di fuori di essa. La filosofia del governo Draghi, che il suo leader personifica, resta in campo per assenza di alternative nella politica istituzionale. Si va verso le elezioni ma non è vero che la competizione tra i partiti, indotta da quelle, metterà al rischio il governo. Al contrario, le turbolenze che certo si moltiplicheranno saranno frenate rispetto a qualsiasi precipitazione dal rischio di venire indicati come i destabilizzatori dell’unico governo possibile per il Paese. Non si capisce perché delle elezioni, figlie dirette della più profonda crisi della politica che si sia conosciuta, dovrebbero dar luogo al cambio. Proprio i fattori di instabilità che crescono, che si aggravano sulla scena mondiale, come su quella locale, spingono il sistema, nella sua concretezza tanto negata quanto sempre più potente, a pretendere la stabilità del quadro istituzionale, potenziando sia direttamente che indirettamente il suo tratto tecno-oligarchico.
Dopo il governo Draghi deve giungere un nuovo governo Draghi, secondo la lezione dell’elezione del presidente della Repubblica, andato così verso un regime di emergenza permanente. Certo, le elezioni sono in questa prospettiva forse un inciampo e un rischio, ma la volontà popolare, come sappiamo, non si dà attraverso una registrazione istantanea della somma delle volontà individuali. Essa è il frutto di un processo complesso, cioè è il campo di vocazione proprio della politica. Ma come abbiamo visto, e fin qui niente è cambiato da questo angolo di visuale, il vuoto della politica è riempito dall’istanza che più radicalmente la nega, cioè quella della stabilità, del mantenimento dell’ordine esistente contro il rischio immanente del caos. Il futuro di questo sistema di governo sta già nel suo presente. Questa filosofia della governabilità è favorita dal processo di drammatico impoverimento della democrazia rappresentativa attraverso l’uscita dall’esercizio del voto di una grande parte della sua componente più popolare, verso di fatto una democrazia di ceto.
Ha scritto Luciano Canfora nel suo libro La democrazia dei signori: “Nelle fasce di popolazione proletaria e sottoproletaria (tra loro sempre meno distanti) il non voto si afferma via via e diviene la scelta dominante”. Ancora Canfora parla di “un suffragio ristretto non più imposto per legge ma realizzato per selezione naturale ed autoesclusione”. Le manomissioni della democrazia rappresentativa, la sua mutilazione, risultano molto pesanti, ma è difficile pensare che il suffragio ristretto a cui si è giunti dispiaccia alle classi dirigenti, le quali possono pensare che in esso possa essere favorita proprio l’istanza della governabilità, favorita rispetto a quella del cambiamento o della rottura, rispetto anche a quella della denuncia delle sue responsabilità.
In questo contesto di crisi verticale della politica, di svuotamento del ruolo e dell’influenza dei partiti, di mutamento regressivo del rapporto tra rappresentati e rappresentanti, ogni scelta politico-istituzionale pur così rilevante rischia di non poter essere decisiva. L’avvento del sistema di voto maggioritario, la finalizzazione di ogni campagna elettorale alla conquista della maggioranza di governo, il privilegio perciò accordato all’ampiezza della coalizione sulla consistenza e la qualità dei programmi, come sul suo profilo politico, hanno svilito la competizione elettorale e hanno contribuito allo svilimento dei partiti sospinti a una crescente marginalità. Ma il ritorno al sistema proporzionale è tanto necessario quanto a questo fine insufficiente. La crisi è arrivata a un punto che, senza una rottura aperta, dichiarata, con tutta la storia politica recente, non c’è alcuna possibilità di rinascita del partito e della politica. Non è più il tempo delle correzioni di rotta. Tutti gli annunci e i propositi di realizzarle a destra, come al centro, come a sinistra, sono destinati, come sta già accadendo, a morire sul nascere, come i patetici tentativi di assemblaggio di forze esistenti al fine di guadagnare per quella via il consenso e il protagonismo perduto nella realtà.
Questa politica è morta e per poter dire “viva la politica” bisognerebbe entrare in quella difficile ma straordinaria condizione che è lo stato nascente, il tempo cioè della fondazione. Vale, in particolare, per la sinistra alla luce della sua storia. L’ultimo atto di questa natura che si ricordi in Europa è quella di François Mitterrand a Épinay. Era il 1971 e in quell’occasione Mitterrand esclamò, proprio in quel congresso: “Chi non è contro il capitalismo esca da questa sala”, e più precisamente ancora affermò: “Noi tutti siamo venuti per costruire il socialismo”. Appunto, la rinascita della politica in crisi passa per un atto fondativo, oppure non si dà. Da noi, non se ne vede traccia, così come si rivelò fallace l’idea che, protetti dallo scudo del governo Draghi, si riattivasse l’iniziativa dei partiti, così accadrà ora, dopo il ritorno alla presidenza di Mattarella e Draghi. È difficile adesso prevedere le vie attraverso le quali si potrebbe arrivare alla conferma di questo assetto di governo anche dopo una competizione elettorale delle elezioni stesse.
Ma non è difficile intravedere fin d’ora una situazione senza un protagonismo così forte e vincente da far sì che si definisca attraverso la contesa politica dei partiti il nuovo governo del Paese. E se ancora poche sono le forze che puntano direttamente alla continuità tra il prima e il dopo, esse potranno accrescersi strada facendo. Lavora a convincere altre forze a questa prospettiva la tormentata situazione geopolitica nel mondo. L’incertezza della dinamica economica e produttiva nella quale si profila anche il rischio della stagflazione, i costi sociali drammatici di una transizione senza riforma sociale e ancora lo strisciare sottotraccia di ribellioni suscettibili di esplodere di fronte a crisi sociali ingovernabili. L’invocazione dello stato di emergenza permanente ha una ramificazione potente che la sostiene. Si guarda troppo ai partiti in crisi e troppo poco alla nuova ramificazione di poteri reali che si vengono costituendo attorno alla presidenza del Consiglio e che si articolano nell’industria, nei servizi, nei punti apicali della pubblica amministrazione, nella finanza, negli istituti di credito, in tutti i centri di potere.
I francesi, più attenti di noi a questo nuovo potente assetto del governo reale allargato, parlano diffusamente del sistema Macron, e un’intera letteratura politica si esercita nel definirne la mappa per disvelarne la potenza in campo. C’è una sorta di strabismo con cui in Italia si guarda alla politica, così si vede nel dettaglio ciò che conta poco, le dinamiche dei partiti, e non si vede ciò che conta sempre di più nel determinare le sorti e il profilo politico programmatico dei governi. Se i partiti sono stati le torri, ora queste torri sono crollate, ma la rete attorno ai governi si è fatta invece forte e potente. L’ambizione, oggi come ieri, di questa costellazione di forze che forgiano concretamente la politica mi pare sempre più, con tutta evidenza, quella di protrarre da noi l’assetto di governo di oggi anche dopo le elezioni, per un intero ciclo, quello che potremmo chiamare “il tempo del Pnrr”.
In questa prospettiva, a Draghi non è richiesto di fare il suo partito e neppure, sebbene possa sembrare ancora incredibile, una sua coalizione. La domanda che di fatto gli viene rivolta è quella di fare in modo da poter essere di nuovo chiesto, così da poter proseguire la permanente emergenza che caratterizza la politica in Italia. Ma anche questo non è compito facile, tutt’altro, e non è detto che sia alla portata del nostro presidente del Consiglio. Del resto, per la rivitalizzazione della politica e in particolare delle sinistre, non è detto che non sia più propizio un periodo turbolento, un periodo di disordine e di incertezza, cioè il tempo dell’imprevisto.
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