L’intervento di Michele Prospero su questo giornale, nei giorni scorsi, è prezioso perché apre, se accolto, una discussione che sarebbe assai utile a sinistra, rompendo così la condizione deprimente chiusa com’è tra l’indifferenza alle tesi altrui e l’aggressività distruttiva. Se capisco bene, la controversia poggia su un forte elemento comune: la crisi di fondo della sinistra politica in Italia. Il punto di partenza del confronto è dunque assai rilevante. La divisione interviene su ciò che produce questa crisi. Sommariamente si potrebbe dire che si tratta di sapere se la causa prima della medesima risieda nell’estraneità e nel rifiuto politico del conflitto sociale da parte della sinistra istituzionale, oppure sulla sua mancanza di un’idea sul modello economico.

 

In altre parole, si tratterebbe di capire se il deficit riguarda principalmente la questione del conflitto o quella del progetto. Si potrebbe sostenere che non si tratta di scegliere, bensì di sommare i deficit riguardanti sia la terra che il cielo. Ma in realtà questa sarebbe una via di fuga da una scelta che invece comporta un modo di stare sulla scena politica piuttosto che un altro. Anche l’approccio riformatore al modello, peraltro, può a sua volta proporsi dall’alto o dal basso e secondo un orientamento riformistico oppure di alternativa di società. In Italia, abbiamo conosciuto entrambi questi approcci, negli anni Sessanta, con un livello di confronto eccezionale, nel quale emersero e furono sconfitti i “riformisti-rivoluzionari”. Allora si affronta dall’alto sia il compito dello Stato e del governo, che il tema della modifica del modello detto di sviluppo. Negli anni Settanta, quelli della riscossa operaia e studentesca, essi furono aggrediti dal basso. La contesa fu promossa dalle lotte e dalle conquiste sociali e di potere.

 

In entrambi i casi, fu necessariamente chiamato in causa lo stesso capitalismo. In entrambi i casi, precondizione alla possibilità di avviare la ricerca fu proprio l’autonomia del soggetto protagonista della contesa, autonomia dal sistema e dal paradigma guida dell’accumulazione capitalistica. Ora, è proprio questa materia prima a mancare a sinistra. Dunque, da qui deve necessariamente cominciare la nostra ricerca e il nostro confronto. La gigantesca rivoluzione capitalistica – non si può non vederlo – si è fondata sul ripristino del suo paradigma fondamentale, mediante la demolizione delle conquiste sociali che avrebbero potuto aprire la via a un diverso modello di società. In Italia, la sequenza della rivincita del capitale è elementare e sistematica.

 

Mettiamo in fila i fatti: l’attacco vincente al potere dei lavoratori in fabbrica (vertenza Fiat, 1980); l’attacco al potere d’acquisto dei salari (demolizione della Scala mobile, 1984); l’attacco all’argine di protezione del conflitto in fabbrica con la messa in discussione reiterata dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori e della sua stessa ispirazione generale; varo di leggi contro l’unitarietà di condizioni garantite per i lavoratori dal contratto nazionale di lavoro e per l’ingresso e la diffusione di una flessibilità presto trasformatasi in precarietà. Colpita al cuore l’autonomia operaia e sospinto il sindacato a farsi istituzione attraverso la concertazione, la vitalità del capitalismo ha fatto la sua rivoluzione, guadagnando il dominio della tecnica. Privata dell’autonomia di classe, la sinistra è diventata prima un gigante d’argilla e poi è franata. Anche perché di quella demolizione essa è stata vittima e complice, culturalmente e politicamente, nelle istituzioni e al governo. Ne è uscita da questo complesso processo storico l’attuale assetto capitalistico mondiale ed europeo, che comprende a sua volta una pluralità di capitalismi.

 

Non c’è nessuna relazione deterministica tra ognuno di questi e la dinamica salariale, c’è invece un condizionamento, ma esso stesso risulta assai complesso. Il tipo di capitalismo non è solo riassumibile nel pure fondamentale “cosa, come, dove, per chi produrre”. Non sono certo io a negarne il peso, ma esso va connesso inestricabilmente alla questione del potere, cioè a chi e come si decide. Il fattore soggettivo non conduce, come sottilmente suggerisce Michele Prospero, all’orribile categoria del tradimento, bensì al suo contrario, spinge a cercare di leggere il dispiegarsi della contesa di classe in tutte le sue manifestazioni, dalla produzione allo scambio, al mercato, al consumo, alla formazione delle culture, dei sensi comuni e alla politica. La differenza tra le diverse dinamiche dei salari tra la Germania e l’Italia era prospettata per indicare un peggio, non un meglio. Da Schröder in poi, l’economia sociale di mercato tedesca ha piegato verso l’ordoliberismo e il suo assetto neomercantilista non ha più protetto una società attraversata da due contraddizioni e da un profondo disagio sociale, fino all’esplosiva condizione dell’est della Germania.

 

D’altra parte, l’Italia non è solo il Paese del capitalismo straccione (vecchia discussione a sinistra, specie tra i comunisti), è una realtà economica complessa e diversificata, quasi quanto il suo mercato di lavoro, che va dalla schiavitù al lavoro creativo, passando per la gran massa dei lavori precari e impoveriti. Per guadagnare un’idea del suo lato dinamico, il lato ricco e originale nel sistema delle imprese italiane, basti leggere Oltre le mura dell’impresa, dove Aldo Bonomi indaga le aree delle piattaforme territoriali e la loro potente dinamicità. Non è il ricorso all’innovazione ciò che prioritariamente manca al Paese, bensì la riforma sociale, economica ed ecologica, manca cioè la Riforma. Né essa viene dalle componenti più avvertite dal sistema. Esse lavorano, in Europa come in Italia, dopo la devastazione prodotta dalle loro politiche di austerity, a una ristrutturazione capitalistica, nella quale la giustizia sociale è confinata a essere una derivata inerte, non assunta come cartina di tornasole del tipo di società da perseguire, relegata a un ruolo di dipendenza. La crisi sociale così prosegue il suo tormentato cammino.

 

Il chi decide ora è perciò incompatibile con il cambiamento. Non è questo un pregiudizio, è invece il giudizio che si deve dare della classe dirigente del Paese, traendolo dalle concrete politiche realizzate dal governo oggi in carica, politiche proiettate anche nel futuro. Draghi, in tutto il suo splendore, è questo problema, non la sua soluzione. E lo è, mentre la sinistra politica lo sostiene inerte. Sul come si decide, il quadro addirittura peggiora, perché si decide sempre di più in una sostanziale sospensione della democrazia rappresentativa, che ha visto accentuarsi il processo peraltro in corso da decenni. Su tutto questo c’è ormai tutta un’intera letteratura, formatasi sotto il segno della post-democrazia. Sul chi decide torniamo, per conoscere la natura, all’analisi critica che si ricava dalle scelte del governo italiano e da quello europeo. Sulle conseguenze di entrambe, sul corpo vivo della società, non solo gli spezzoni di inchiesta partecipata che vivono nel Paese, non solo le inchieste sui conflitti in corso, ma le statistiche ufficiali sono implacabili. Alla ripresa economica certificata della crescita del Pil corrispondono una pressoché generale incertezza sul futuro della stessa e, sopra ogni cosa, l’aggravamento strutturale delle diseguaglianze.

 

Nella crisi, esse si sono alimentate; in questa crescita, queste si sono e si stanno strutturando e si diffondono, alimentando nella società il rancore e l’uscita di tanta parte del popolo dalla democrazia rappresentativa. Giusto denunciare quelle politiche che in queste acque navigano per ottenere consensi speculando su di essa, ma non sono loro l’assassino. Questo va trovato dove continua a vivere, cioè nella combinazione che sta diventando sempre più stringente da questa nuova accumulazione capitalistica e queste nuove forme neo-autoritarie di governo. Con le sinistre politiche che restano dentro questa combinazione distruttiva di alterità e di alternativa. Quando si propone di individuare la prima perdita di autonomia e di progettualità alternativa della sinistra politica nella separazione dalla stessa sua origine, il conflitto sociale e di classe, non si vuole proporre così una chiave interpretativa totalizzante, ma la causa prima della sua scomparsa, con la perdita di quel ruolo protagonista che ha avuto nella storia. Quando si propone di riscoprire e di trovare nel conflitto di lavoro, nel conflitto sociale, nel conflitto di classe, il protagonismo perduto non si propone semplicemente di accedere a un opzione movimentista.

 

Se lo fosse, non ci sarebbe nulla di male nel dichiararlo apertamente. Lo si propone sulla base di un’analisi critica di questo sviluppo capitalistico e della prigionia in cui esso tiene la politica e le istituzioni, comprese quelle della sinistra politica. A liberare l’una e l’altra possono allora solo coloro che stanno fuori: i barbari. Quei barbari che possono prendere la parola solo agendo i conflitti. Per questo, l’applicazione alle loro genesi, alla loro morfologia e alle soggettività critiche che si producono nelle loro esperienze, sono l’unico terreno votato alla rinascita, alla ricostruzione di un’alternativa di società, di modello. Si potrebbe dire che il conflitto si presenta allora come parte di un processo ri-Costituente o addirittura, per rubare la formula a Roberto Esposito, un processo istituente.

Fausto Bertinotti

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