Nel presentare questo libro non posso che iniziare dal titolo, “i colori della fenice”. E a me sembra che i colori di questo uccello mitologico: giallo il collo, rosso il corpo e blu la coda, rappresentino i colori della nostra vita, o perlomeno i colori dell’identità dei nostri autori. Non a caso il primo capitolo del libro, “primula rossa?” si interroga sull’identità, e la risposta a questa domanda, per niente retorica, è il ricevere e il dare. Riceviamo la vita e doniamo agli altri la nostra personalità per arricchire la comunità alla quale apparteniamo, “partendo dal senso di solidarietà e di rispetto che ci impegna per la vitalità della Res Pubica.”

Ma tornando ai “colori della Fenice”, rosso e blu, non si può notare che gli stessi sono i colori di Gubbio che tramandano alla tradizione, alla cultura, alla storia della città. E si ripercorre la seconda metà del ‘900 eugubina, rievocando i vicoli, i giochi dei ragazzi, personaggi caratteristici della città, le caratteristiche di una comunità di 60 anni fa. Una comunità che resta lontana, tra malinconia e nostalgia, tra il voler fermare il tempo per capire meglio il mondo di oggi ripensando al mondo di ieri. E non ci sono più ragazzini che fanno i raccattapalle allo stadio comunale (ora non c’è più, si è spostato a destra dalla parte opposta prendendo il nome “Pietro Barbetti”, solo un prato verde rievoca i fasti di un tempo passato) perché si sentono parte della quadra di calcio della propria città; bello il ricordo del calcio al pallone per rimettere in campo prima possibile la palla per riprendere subito il gioco e sentirsi un eroe perché subito dopo quel calcio il Gubbio ha segnato, ed altrettanto bello è lo scivolone in mezzo al campo con uno stadio intero che ride dell’incidente, ma la corsa era genuina, spontanea, dettata dalla passione per la squadra della propria città. E non si gioca più con i carrettini in via Saffi o via Armanni, con le biglie e con il pallone davanti San Pietro. I “ragazzi della via pall”, di una Budapest lontana, erano nelle nostre città e la comunità intera li sentiva suoi. Non ci sono più i partiti di massa che formano coscienze, si perde la memoria di concittadini che hanno lottato per un ideale di libertà, il post-moderno sta disgregando la coesione sociale.

Ed il cinema, i film. I nostri giovani non hanno più l’attenzione a guardare un bel film, eppure il cinema delle piccole città è stato un punto fermo della crescita intellettuale di intere generazioni. Oggi si consuma veloce ogni cosa ed il gusto della riflessione, del sogno lascia lo spazio ad un immaginario virtuale che sembra coincidere con il reale. Ma Gubbio è Gubbio e le tradizioni si tramandano di generazione in generazione, e da queste tradizioni trova forza una nuova speranza. La città è chiusa ad est dagli Appennini, ad ovest da alte colline, e questi confini, che sembrano invalicabili ponendo forti limiti, rappresentano invece la sua forza. Ma questo isolamento ha una causa ben precisa: un drastico collasso economico. E la causa di questa crisi dipende dalle grandi vie di comunicazione da e per Roma: “la strada di Matilde di Canossa scompare perché riprende vigore la via Flaminia, si perde la traccia della via romana di Gubbio, attraverso le colline, per aprirsi alla Valle del Tevere”. Sono, quindi, queste nuove vie di comunicazione che tagliano fuori Gubbio mettendo seriamente in crisi il prestigioso artigianato, oggi emblematicamente testimoniato dalle “logge dei tiratori”, site nell’attuale piazza 40 martiri e un esempio di archeologia industriale. Lì si rivelava la capacità degli artigiani eugubini a lavorare la lana degli armenti che si allevavano nel territorio e prendevano forma le matasse, i tessuti, le cimose.

Ma la storia di Gubbio affonda le sue radici nei tempi dei tempi: le 7 tavole eugubine sono lì a testimoniarlo. Rinvenute nel XV secolo nel territorio dell’antica Ikivium (il nome antico di Gubbio) sulle quali è scritto un testo in Umbro, relativo a complessi cerimoniali di lustrazioni, un’antica cerimonia di purificazione effettuata tramite il lavaggio con acqua, ed espiazione, che consisteva nel riparare una colpa scontandone una pena. Le tavole furono vendute al comune di Gubbio nel 1456 e attualmente sono conservate nella cappella del Palazzo dei Consoli a Gubbio. Risalgono al III o al II secolo a.C. e sono scritte in lingua Umbra. Anche la VI e la VII tavola sono state scritte in Umbro, ma con alfabeto latino e sembra che possano risalire al I secolo a.C. Con tutta probabilità le tavole riportano, in forma monumentale, testi molto più antichi, risalenti a una fase imprecisata del I millennio a.C. Tra di esse. le differenze di lingua sono dovute in gran parte a diversità di grafia, giacché l'alfabeto umbro non aveva segni per o, g, d e spesso scriveva p per b e il paleoumbro ř nel neoumbro è reso con rs. Tutti i testi sono comunque scritti in lingua umbra.Le tavole sono l'unica fonte per lo studio del popolo Umbro e della sua lingua e le sue pratiche religiose sembrano essere scritte in un metro poetico simile al saturnio, metro che si incontra nella prima poesia latina se si escludono brevissime iscrizioni epigrafiche sono anche gli unici testi in lingua umbra. Il linguista Giacomo Devoto considera le tavole eugubine, di cui a lungo si è occupato, come il "più importante testo rituale di tutta l'antichità classica". Le tavole contengono prescrizioni per il collegio sacerdotale dei Fratres Atiedii, un gruppo sacerdotale composto da 12 sacerdoti devoti al dio Ju-pater, ovvero Giove.

Ed è proprio in queste tavole che si pensa si possano trovare le origini della incredibile “festa dei ceri”. Non so se sia leggenda, ma sembra che questi primitivi abitanti erano soliti fare lustrazioni ed espiazioni risalendo, appunto, il Camignano fino alla sorgente sul monte Foce per pregare le loro divinità. Studi antropologici argomentano infatti l’origine pagana dei “Ceri”. I ceri che, come ci ricorda l’autore, sono il simbolo della nostra Regione. E i Ceri sono la festa della festa, un giorno che si trasforma in ragione di vita, un’ubriacatura collettiva che va oltre ogni immaginario pensiero. Ma anche qui la modernità offende la tradizione, e l’appartenenza ad un cero non ha più il significato della comunità intera, la rivalità fra i tre ordini di ceri ha preso il posto di quell’antica lustrazione che rappresentava le fondamenta dell’esistenza di un popolo.

“Vai fuori straniero”. Non è questa la tradizione dei Ceri, non è questo il significato, non per questo Ubaldo ha scacciato Federico Barbarossa. Ma è invece per una storia antica, per il riscatto di una comunità intera che ha difeso la sua città dall’invasione straniera. Sono passati quasi 50 anni da quel 30 ottobre 1973, giorno in cui il Consiglio Regionale approvava la legge che assegnava alla neonata Regione Umbria il proprio simbolo identitario, “costituito da elementi geometrici raffiguranti in sintesi grafica i tre Ceri di Gubbio, di colore rosso, delimitati da strisce bianche, in campo argento di forma rettangolare”. Questo per dire che i ceri sono inclusivi e che vanno oltre la città di Gubbio e che, quindi, sono un patrimonio regionale. E il segnale della festa è dato dalle campane il cui suono, dalla torre del palazzo dei Consoli, echeggia già dalla sera del giorno avanti per le strade e le campagne eugubine. Quella torre fu scelta da Zeffirelli per girare un capolavoro cinematografico. “Romeo e Giulietta”. Ma il libro, va oltre e parla di cambiamenti climatici, di un modello di sviluppo che ha un limite, oltre il quale il mondo esploderà. Questo limite non è molto lontano: è il 2050. “il 2050 è l’ultimo tempo di vita, ci dice la scienza, per ciascun essere vivente”

Con questo assunto i nostri autori lanciano l’allarme e, nello stesso tempo, una speranza di cambiamento. Un cambiamento necessario se vogliamo che il nostro pianeta possa ancora ospitare il genere umano.

Si fanno considerazioni geopolitiche, si parla di fine del “secolo americano” (bagliori di un crepuscolo); si accenna ad un periodo che prende in esame 200 anni, a partire dalla dottrina Monroe del 1823, con la quale gli Stati Uniti stabilivano il divieto assoluto per le potenze europee di fondare colonie per motivi di sicurezza nazionale. E con gli occhi di oggi sembra che il mondo si sia capovolto. Si parla delle contraddizioni della globalizzazione capitalista, e per capire questi fenomeni si cita Carlo Marx e la sua monumentale opera “il capitale”, per capire i fatti che oggi cambiano i paradigmi economici.

Ed è proprio il gotha del capitalismo globale che cerca nel pensiero di Marx le risposte alle proprie stesse domande, a partire dalla violenta recessione del 2008, passando per la crisi pandemica del 2020 e arrivando alla crisi militare del 2020. Molti articoli di quotidiani dell’alta finanza come il “Financial Time”, il “Wall Stret Journal” o “L’Economist” hanno rievocato più volte lo spettro del barbuto di Treviri: “…Il flusso all’indietro del potere dal lavoro al capitale sta finalmente cominciando a produrre una reazione popolare e spesso populista. Non c’è da stupirsi che il libro di economia di maggior successo degli anni, “il capitale nel XXI secolo” di Thomas Piketty, riprenda il titolo dell’opera di Marx e la sua preoccupazione per la diseguaglianza” (The Economist 2018).

Concentrazione e centralizzazione dei capitali avvengono quotidianamente e questi due aspetti dell’economia, che sembrano sinonimi, sono in realtà complementari. E per capirli dobbiamo tornare all’opera di Marx pubblicata nel 1867: la concentrazione prevede acquisizioni di quote di mercato da parte delle aziende più forti, per centralizzazioni, invece, si intende la direzione di queste sempre più grosse concentrazioni e quindi un élite mondiale che governa processi internazionali.

La cosa che mi viene in mente immediatamente è quanto scritto nel libro che discutiamo: il depauperamento dei centri storici, la nascita di sempre più centri commerciali, la scomparsa dei negozianti. È questo il cambiamento radicale che trasforma i rapporti sociali, le città. Ma qui mi piace ricordare una famosa battuta del filosofo che più di tutti gli altri filosofi ha cambiato il mondo. Un giornalista inglese si rivolse a lui chiedendogli cosa ne pensasse del marxismo, gli rispose in francese: je ne suis pas un marxiste. La caratteristica de “i colori della fenice” è quella che partendo da Gubbio si fa un viaggio globale per tornare a Gubbio e il fil rouge che unisce questo viaggio è la speranza che le città possano tornare ad essere delle comunità. E la scena finale del film “il grande dittatore” di Chaplin con il famoso discorso del “barbiere ebreo” è quanto mai significativo per continuare a sperare

Attilio Gambacorta

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