di Diego Carmignani (Terra)
 

Nella cittadina del Galles dove è ambientato Le cose che non vogliamo più (Isbn edizioni), c’è un protagonista silenzioso: l’immondizia. Possiamo dire che gli scarti sono il riflesso dell’agire dei personaggi?
La migliore risposta è nel prologo che scrissi quando il libro non era ancora finito e in cui spiegavo: esiste un “rifiuto primario”, di poco valore e impatto, come la polvere e le briciole, che gettiamo in giardino, e poi c’è il “rifiuto secondario”, che viene rimosso dal posto dove viene prodotto. Per questi scarti esiste la possibilità di venire riutilizzati e rivalorizzati, oppure finiscono in discarica, gradualmente relegati sempre più lontano, finché non vengono rimossi definitivamente. Questa distinzione esiste sia per l’immondizia che per molti aspetti della nostra vita: ci comportiamo allo stesso modo con le nostre emozioni e se non lo facessimo saremmo danneggiati. Per questo, nel romanzo, vediamo l’involucro dei personaggi, invece di conoscere il loro effettivo contenuto.

Non a caso il “tragico eroe” della vicenda è Alan, uno spazzino.
Penso che per certe persone, dover essere padre, marito e svegliarsi tutte le mattine per andare a lavorare, rappresenti una forma di eroismo. Ci vuole energia e fiducia. Nel caso di Alan, lui non ha né l’una né l’altra. Non vuole la responsibilità di vestire i panni dell’eroe, e nemmeno dell’antieroe. Il suo ruolo sta nel rappresentare la stanchezza e la difficoltà, comune a tutti, di provare a mantenere il senso della propria esistenza. È questo il motivo per cui ho scelto di scrivere di un personaggio del genere.

Un atteggiamento che lo pone in un contatto difficile con le persone, riflesso anche qui del modo di approcciarsi agli oggetti e alla loro dimensione di “scarti”. Cosa pensi del nostro rapporto con le cose, oggi?
Viviamo in una società molto più “in svendita” di quanto sia mai capitato prima. Essere testimone di ciò ha forse cambiato il modo in cui ci rapportiamo alle persone, al lavoro e così via. Le relazioni vengono scelte e utilizzate per uno scopo, con la stessa leggerezza con cui scegliamo un accessorio da uno scaffale dell’Ikea. Siamo molto più pronti a gettare via le cose che a ripararle.

Tra le cose e gli esseri umani, nel libro, ci sono anche diversi animali: granchi, pesci, ratti... Che ruolo hanno?
Spesso gli animali appaiono come metafore ma crescendo in una località come la mia, Aberaeron, si è spesso circondati da diverse creature. Così, risulta difficile capire il mondo senza ricorrere alla loro presenza. In molti modi, gli animali nel mio libro riflettono gli esseri umani. Al loro livello, sono soggetti alle stesse pressioni e agli stessi fallimenti. E cercano di sopravvivere usando le stesse strategie. Ad esempio, il granchio che tenta di starsene al sole, viene imprigionato in un barattolo e trascinato via dalla corrente, somiglia in tutto ad Alan, intrappolato in una relazione a cui ha provato a sopravvivere, mentre la marea di affetto e amore andava calando nel tempo.

Cosa pensi del rapporto dell’uomo con la natura? Anche questo è influenzato dal tuo mondo, il Galles, o hai una visione complessiva?
Sono cresciuto lì, e lì ho scelto di tornare e vivere. Tutto quello che faccio è ispirato e influenzato da questo fatto inamovibile. Penso che la costa del Galles sia comunque un posto “universale”, ma nel libro non ha un nome specifico: una location del genere è capace di suggerire i sintomi propri della nostra società nella loro interezza. C’è il mare, che è un dato di fatto che crea identità, ma possiamo considerarla una storia che funzionerebbe ovunque. Credo che chi vive in un ambiente urbano, oggi, ha un rapporto con la natura totalmente voyeuristico. In sostanza, le tue decisioni non sono intimamente connesse con essa. E anche in questo libro, la natura essenzialmente è per i personaggi un luogo da scoprire più che un soggetto dove sono immersi e con cui coesistono.

Il tuo primo romanzo era intitolato La lunga siccità, questo, nella lingua originale, Out onto the water. Sono l’uno l’opposto dell’altro? E cosa rappresenta il mare nel libro?
Il mare è lo spazio, o meglio l’aspirazione ad avere uno spazio dove essere noi stessi e troppo spesso precluso dalla tanta “immondizia” che ci riempie la vita. Sul rapporto tra i due romanzi, ci sono diversi punti di contatto. L’intimità con la natura opposta allo smarrimento esistenziale; un uomo che accetta le responsabilità opposto a uno che le rifiuta; uno è in cerca di qualcosa, l’altro si nasconde da qualcosa; le cose che cerchiamo di portare al mondo opposte a quelle che gettiamo via dal mondo. C’’è una versione di Le cose che non vogliamo più che ho scritto prima di La lunga siccità e a cui ho aggiunto altro materiale da un’altra mia opera. Insomma, questo libro stesso è stato smantellato, riciclato e trasformato in qualcos’altro.

C’è un intento morale nel tuo libro? Non troviamo distinzione tra “buoni” e “cattivi”.
No, nessun intento morale. La differenza che faccio io è tra colpevolezza e responsabilità. Ognuno di noi, per affrontare il mondo, dispone solamente delle armi che possiede (psicologiche, emozionali, intellettuali, etc.). Io non scrivo per esprimere giudizi: quelli li lascio al lettore. Credo fermamente che le persone facciano ogni giorno il meglio che possono, con tutte le forze che la sorte ha messo a loro disposizione.

 

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