di Michele Prospero

Mentre le prospettive della crisi pongono dilemmi angoscianti sulla stessa capacità del Paese (e anche dell’Europa) di sopravvivere al disastro economico, costituisce un bel segnale (perché in controtendenza) il ritrovamento, dopo anni di assoluta incomunicabilità, di un percorso unitario del sindacato. La manifestazione comune del 16 giugno segna l’apparizione di un qualche principio di speranza per un’Italia smarrita e in affanno, sempre più sprovvista di una guida politica sorretta da un progetto credibile e lungimirante. Aggrediti al cuore da un’ideologia antipolitica (diffusa in modo alluvionale dai media pubblici e privati) cui neppure più osano ribellarsi, i partiti, quel che ne resta, non riescono a tenere una strategia storico-politica coerente.

Per questo vanno alla ricerca di generiche offerte di novità e scambiano per un segnale di innovazione, e per il chiaro indizio di un ormai recuperato collegamento con le ansie profonde della società, l’aver rispolverato il vecchio strumento delle primarie. Troppo abbagliati dal marketing, i partiti perdono per strada ogni consapevolezza di come si gestisce una crisi sociale, e quindi si logorano inseguendo inutilmente i fantasmi antichi dei gazebo, e non si preoccupano più di ricostruire durevoli insediamenti sociali. In questo grave vuoto di partiti radicati, che servono soprattutto in giunture critiche, il sindacato rimane l’unico soggetto in grado di avvertire il disagio delle persone e di organizzare un percorso collettivo di difesa.

Il ruolo politico del sindacato è oggi un dato oggettivo che s’impone per la debolezza di partiti strutturati che diano un orizzonte di senso alla loro parte di società. Tutto ciò non ha nulla a che fare con il chiacchiericcio ricorrente su liste civiche da costruire attorno a una sola categoria di lavoratori o con la tendenza degenerativa all’autorappresentazione di ogni istanza, che è solo l’anticamera dell’eutanasia della rappresentanza politica generale.

Il sindacato confederale, che recupera le tracce dell’unità perduta: questa è di per sé la grande funzione politica utile al Paese. Il sindacato oggi è il principale presidio civico disponibile per fornire una risposta di massa alla perdita di status che da vent’anni coinvolge le persone che perdono lavoro, sicurezza, diritti, tutele. All’origine della crisi italiana, che dura da cinque anni senza incontrare terapie efficaci, c’è un nodo duro ed è costituito dalla crescita vertiginosa delle diseguaglianze che non hanno trovato argini politici e risposte adeguate.

La perdita del peso politico e del valore del lavoro ha edificato nel corso della seconda Repubblica una doppia società. Da una parte c’è la società “vincente”, con settori ampi di microcapitalismo territoriale, di lavoro autonomo e delle professioni che hanno visto crescere prestazioni, accumulazione di capitali, ricchezze materiali e simboliche e anche influenza politica (a livello locale e centrale). Dall’altra si colloca quella “soccombente”, con il lavoro che viene decostruito sotto il profilo giuridico-contrattuale, e che si vede bloccare per anni i livelli salariali, che subisce l’affronto di ritocchi al ribasso di prestazioni contributive e previdenziali. Su questa parte di società, che vive del lavoro e sulla quale è possibile ricorrere a un prelievo fiscale alla fonte, si accaniscono le morse di una tassazione unilaterale mentre diminuiscono in maniera intollerabile i diritti sanitari, scolastici eccetera.

Il lavoro paga sempre di più (lo fa anche per chi invece evade in maniera sistematica) i costi di una macchina pubblica scadente e che può utilizzare sempre di meno. Queste due porzioni di società hanno un rapporto assai diverso con il fisco, che è la vera fabbrica della diseguaglianza e della destrutturazione dello spazio pubblico in Italia. Un noto sociologo, Domenico De Masi, ha scritto qualche settimana fa che i veri proletari di oggi sono gli imprenditori. A leggere le tabelle dell’Istat verrebbe proprio da dargli ragione. I capitalisti e i ricchi professionisti o commercianti in Italia non esistono proprio. I poveri imprenditori, i commercianti e i professionisti sono messi così male nelle loro attività che guadagnano molto meno degli operai, che loro sì, non gli orefici che si sa sono dei nullatenenti, navigano beati nel luccicante metallo giallo. A questo punto urgono provvedimenti di politica sociale per definire misure di pari opportunità a favore dei poveri capitalisti o professionisti caduti in angosciosa penuria! I commessi benestanti, che senza vergogna guadagnano molto più dei loro padroni che sopravvivono alla giornata, dovrebbero prestare più attenzione alle sofferenze degli altri.

Offrire i grandi negozi, luoghi di insalubre indigenza, ai commessi, facendoli così scendere paurosamente allo status di proprietari, e promuovere invece i poveri proprietari a dei felici e garantiti commessi per far provare loro l’ebbrezza della scalata sociale, ecco, questa potrebbe essere una misura all’insegna del grande solidarismo. Lo stesso dovrebbe accadere nelle fabbriche e nei capannoni. Gli operai, se finalmente accantonassero il loro cieco corporativismo che li pone alla difesa di privilegi ormai fuori del tempo, dovrebbero accettare il sacrificio immane di rinunciare alla loro vita agiata (ovattata, dicevano i giovani figli di papà in una celebre lettera-manifesto della meritocrazia apparsa sul Corriere della Sera), alla loro esistenza eccessivamente protetta e diventare imprenditori per vivere così senza più coperture, rigidità legali e vantaggi ingiustificati.

Fuor di paradosso, i governi tecnici sembrano aver preso sul serio le immagini di De Masi e quindi, con il loro rigorismo intransigente, hanno aggredito senza alcun riguardo i santuari del privilegio (cioè i lavoratori, come spesso dice il Corriere della Sera, che in soccorso del ministro Fornero vede come uno straordinario traguardo di civiltà la ghiotta possibilità di licenziare a raffica gli statali) e risparmiare i veri proletari, cioè le imprese, il grande lavoro autonomo. La crisi ricade quasi per intero sulle spalle del lavoro e delle pensioni, e questo colpire il lavoro con misure sempre uguali imposte da manovre inutili rientrerebbe in quello che addirittura, con enfasi ingiustificata, viene definito “il tempo delle riforme strutturali”. La verità è che il commissariamento della Grecia, deciso in nome di sua maestà il rigore, non ha spostato di un millimetro la copertura della voragine finanziaria ereditata, ma ha riportato maledettamente indietro il quadro politico, costretto a convivere con cupe prospettive weimariane.

Purtroppo è nell’ordine delle cose possibili un inestricabile intreccio tra la crisi istituzionale (prodotta dal bipolarismo delle primarie e dall’elezione del candidato premier) e l’insorgenza del malessere sociale. In questo scenario critico l’unico segnale positivo è che il sindacato mostra ritrovati segnali di compattezza e combattività. Tocca ai soggetti del pluralismo sociale fornire quelle sponde e quelle strategie di rassicurazione a una società molto smarrita che i partiti non sembrano più in grado di dirigere. Nelle incognite di una crisi sociale il sindacato occupa uno spazio politico, cioè prende su di sé il peso della cura di un interesse generale nella democrazia.

Il silenzio dei partiti, la destrutturazione di ogni rappresentanza politica del lavoro, e il mito ingenuo del rigore, che va imposto a dispetto di ogni consenso sociale, possono in breve condurre il Paese al disastro. La grande politica non è mai rappresentata da un uomo solo al comando, ma presuppone un’organizzazione complessa, una struttura di mediazione, un raccordo con i diversi soggetti sociali del pluralismo. Quando appare visibile la carenza storica delle classi politiche, accecate di nuovo dalle seduzioni facili dell’iperdemocrazia dei gazebo, tocca ai soggetti del pluralismo ridare una prospettiva di cittadinanza al lavoro.

Fonte: rassegna.it

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