A Torgiano la battaglia del Trasimeno coi soldatini di piombo. L'analisi storica
Annibale al Trasimeno. Il genio del condottiero, le nuove teorie sulla battaglia
di Stefano Vinti
1. Le guerre puniche: la vittoria dell’imperialismo romano e le riforme democratiche
Le guerre puniche decisero che Roma avrebbe dominato il mondo e furono, sia la prima (264 – 241 a. C.) che la seconda (218 – 201 a. C), i più grandi conflitti armati dell’antichità, in relazione agli anni guerreggiati, alle gigantesche forze impiegate, alle perdite materiali e umane (civili e militari) sia cartaginesi che romane. La terza (149 – 146 a. C.) non fu una guerra in senso stretto, fu la cancellazione di un nemico non più in grado di difendersi. “Le guerre puniche furono lo scontro dell’imperialismo romano, del tutto unico e incontenibile nella sete del possesso, con il più efficace degli imperialismi di tipo tradizionale (ad esempio: Siracusa, Sparta o Atene) di carattere e portata limitati.”(A. Ziolkowski).
Le guerre puniche furono il severissimo banco di prova che misurò la potenza dell’impero italico e la sua resistenza. Al tempo stesso le dimensioni di quella straordinaria potenza si svelarono al mondo. Anche se i romani avviarono la guerra nella piena consapevolezza della loro superiorità nei confronti di Cartagine, la sorte del conflitto fu incerta fino alla fine e il suo andamento sorprendente. A Roma come a Cartagine, nel periodo tra la prima e la seconda guerra punica, si registrò un avanzamento dell’influenza politica del movimento popolare e democratico. Le cause possono ricercarsi nella necessità della massima mobilitazione popolare quando un paese è chiamato ad uno scontro per la propria sopravvivenza. A Roma, inoltre, andarono ad aggiungersi delle motivazioni proprie che alimentarono le rivendicazioni democratiche. S. I. Kovaliov così le descrive: “la guerra era stata vinta dal popolo, al quale era costata molto cara e non aveva procurato vantaggio alcuno (in Sicilia, ad esempio, nemmeno una colonia era stata distaccata); la guerra aveva messo a nudo gravi difetti del meccanismo statale; la conoscenza di paesi stranieri, il più stretto contatto con la civiltà greca e cartaginese avevano ampliato l’orizzonte intellettuale dei contadini italici e accresciuto le loro esigenze politiche; grazie alla creazione della flotta il numero di persone impegnate in guerra era divenuto enorme e si trattava degli strati senza diritti della popolazione italica”.
La prima guerra punica non aveva modificato in maniera significativa il tessuto sociale e la composizione economico-sociale della classe dirigente romana, che ancora restava sostanzialmente omogenea. Però i piccoli proprietari terrieri parvero emergere come il ceto sociale che usciva dalla guerra con più forza e con una nuova spinta a modificare a proprio vantaggio i meccanismi istituzionali.
“Il decremento demografico aveva evidentemente anche limitato la tradizionale fame di terre, e solo nel 234 la popolazione era tornata ai livelli prebellici, del 265, con 270mila cittadini censiti… Questa relativa stabilità e compattezza del corpo sociale è dimostrata anche dalle prime manifestazioni di rilievo nella cultura letteraria latina… La sperimentata procedura della colonizzazione latina aveva ancora una funzione da svolgere: nel 264 Fermo, nel 244 Brindisi, nel 241 Spoleto, oltre alle colonie della valle Padana Piacenza e Cremona, continuava ad offrire opportunità di sistemazione ai contadini romani e latini senza lacerare il quadro istituzionale delle città-stato… Cominciava a porsi in modo netto il problema del modello di controllo del territori, e del suo utilizzo per l’insediamento dei contadini soldati”. (G. Clemente)
Kovaliov descrive la riforma dei comizi centuriati (assemblea fondata sul censo e quindi sulla prevalenza dei voti dei più ricchi), seppure come ipotesi in quanto si hanno grandi incertezze sulle fonti. Riforma promossa, verosimilmente, ad iniziativa, nel 241, dei censori Aurelio Cotta e Fabio Buteone. Dopo aver stabilito definitivamente il numero delle tribù, si arrivò ad una situazione in cui il peso politico del ceto dei contadini meno abbienti aumentò, in quanto si potenziò il loro luogo più rappresentativo, che erano, appunto, le assemblee per tribù.
“Si creò quindi un complesso sistema di collegamento fra numero di centurie di voto tra le varie classi in modo che non fosse assicurata automaticamente la superiorità numerica delle centurie delle prime due classi (cavalieri e possidenti terrieri); la struttura portante dell’organizzazione della popolazione divenne così la tribù territoriale e l’assemblea che ne derivava; espressione originaria del più democratico ordinamento plebeo rispetto a quello censitario…” (G. Clemente). Nonostante il sistema non fosse perfetto e continuasse a penalizzare i cittadini romani di estrazione sociale popolare, la riforma rappresentava un passo decisivo sulla strada di una maggiore e più ampia democratizzazione del sistema istituzionale di Roma. La spinta democratica e la necessità di rappresentanza dei ceti contadini e plebei trovarono nell’iniziativa politica di Caio Flaminio la sponda necessaria.
“Caio Flaminio, uno dei primi grandi capi popolari, legati ai problemi dei piccoli proprietari e dello sfruttamento della terra, uniti con un filo ideale per tutta la storia repubblicana, da Curio Dentato (il conquistatore della Sabinia) ai Gracchi”. (G. Clemente).
I cartaginesi si dimostrarono uno straordinario avversario tanto da costringere, nella prima guerra, i romani ad apprendere, a conoscere e dominare il mare, loro che erano dei contadini. “Nella seconda, invece, il loro impero venne a trovarsi sull’orlo del baratro a causa di un fattore il cui peso non era prevedibile: un condottiero dall’inimmaginabile genio tattico, Annibale.”(A. Ziolkowski).
2. Un giudizio su Annibale
La storia ci ha conservato due giudizi magistrali sul grande condottiero cartaginese e sul suo profilo politico. Uno di Tito Livio, segnato dal terrore e dall’odio romano verso il nemico; l’altro, più pacato ed obiettivo di Polibio. Livio scrive: “Mai spirito d’uomo fu in tal misura adatto a due doveri tanto diversi: comandare e obbedire; sarebbe quindi difficile dire chi lo amasse di più: se il comandante supremo oppure i soldati. Nessuno Asdrubale nominava più volentieri capo di un reparto che doveva compiere una qualsiasi impresa che richiedesse fermezza ad audacia; ma anche i soldati al comando di nessun altro si dimostravano tanto sicuri di sé e valorosi. Egli era tanto ardito nell’affrontare il pericolo quanto cauto in esso.....La sua uniforme non era per nulla diversa da quella degli altri uomini della sua età....sia a cavallo che a piedi egli lasciava sempre indietro gli altri, primo a gettarsi nella mischia, ultimo ad abbandonare il campo di battaglia. Ma a queste alte qualità si univano in egual misura vizi spaventosi. La sua crudeltà era disumana, la sua perfidia superava di gran lunga la perfidia punica. Egli non conosceva né la verità né il bene; non temeva gli dei, non manteneva i giuramenti, non rispettava le cose sacre”. “La crudeltà e la perfidia di Annibale esistono solamente nella mente dello storico romano: Annibale effettivamente era inesauribile negli stratagemmi militari, ma noi non sappiamo nulla di concreto sulla sua presunta amoralità. È poco probabile che egli sia stato molto diverso, a questo riguardo, degli altri uomini della sua epoca: i capi romani non erano meno crudeli e perfidi di quelli cartaginesi”. (S.I. Kovaliov).
Polibio non dice nulla sulle qualità morali di Annibale, sottolinea solamente le sue virtù di condottiero: “Forse che si può non rimanere meravigliati dell’arte strategica di Annibale, del suo valore e della capacità di vivere la vita del campo, se si getta uno sguardo a quel periodo in tutta la sua durata; se ci si sofferma con l’attenzione su tutte le grandi e piccole battaglie, sugli assedi, sulle cadute della città, sulle difficoltà che doveva risolvere, se infine consideriamo tutta la grandezza delle sue imprese? In 16 anni di guerra con i Romani in Italia, Annibale non cedette il campo una sola volta. Come un abile timoniere egli mantenne continuamente in obbedienza le numerose ed eterogenee truppe al suo servizio, seppe preservarle da ammutinamenti contro i capi e da discordie interne.....Tuttavia la saggezza del capo insegnò a nazionalità tanto diverse e numerose a seguire un nuovo ordine, a sottomettersi a un’unica volontà, in qualsiasi circostanza o situazione, quando la sorte era favorevole o quando era avversa”. “Bisogna ancora aggiungere che Annibale era un uomo molto istruito e che era padrone di alcune lingue, tra cui anche il latino”.(S.I. Kovaliov).
Anche Cornelio Nepote tratteggiò una breve biografia del condottiero cartaginese, nella sua ‘Vite degli uomini illustri’: “Annibale, figlio di Amilcare, cartaginese. Se è vero, cosa che nessuno mette in dubbio, che il popolo romano superò in valore tutte le genti, non si può negare che Annibale di tanto fu superiore in accortezza a tutti gli altri condottieri, di quanto il popolo romano supera in potenza tutte le nazioni. Infatti ogni volta che si scontrò con questo in Italia, ne uscì sempre vittorioso. E se non fosse stato indebolito in patria dalla malevolenza dei suoi concittadini, forse avrebbe potuto sconfiggere i romani. Ma la denigrazione di molti ebbe la meglio sul valore di uno solo. Questi seppe conservare a tal punto l’odio verso i romani, lasciatogli come eredità del padre, che rinunciò prima alla vita che a quello: pur cacciato dalla patria e bisognoso dell’altrui aiuto, non smise mai in cuor suo di combattere i romani”.
3. Dalla Spagna all’Italia Asdrubale Barca fondò una sorta di ‘impero spagnolo di Cartagine’, che non costituiva un pericolo imminente per Roma ma che la costringeva a stipulare un trattato che fissava nell’Ebro il confine delle sfere di influenza delle due parti. “Nel 221, morto Asdrubale, il venticinquenne Annibale, figlio di Amilcare Barca, aveva continuato l’opera del padre e del cognato finché, nel 219, ponendo l’assedio a Sagunto, aveva creato il casus belli.” (G. Clemente). Quindi attraversò i Pirenei e il Rodano con 50mila fanti, 12mila cavalieri e alcune decine di elefanti; valicò le Alpi attraverso il passo del Moncenisio: era il 218 a. C. La traversata durò poco più di due settimane. Dell’enorme armata, assottigliata da battaglie, privazioni e diserzioni, restavano circa 6mila cavalieri e 20mila soldati di fanteria. Era il settembre del 218.
Il piano di Annibale era estremamente audace. Egli si proponeva di marciare in Italia da nord; era un azzardo sia dal punto di vista politico che militare. Comunque colse di sorpresa il Senato romano, che non immaginava di dover affrontare una guerra difensiva. L’obiettivo primario di Annibale non era conquistare Roma, ma prevedeva di colpire direttamente la base della supremazia del nemico, il suo dominio nell’Italia, mediante un attacco dell’armata spagnola nella penisola allo scopo di spingere alla rivolta i suoi alleati, cosi da ridimensionare Roma e posizionarla come una potenza locale dal raggio di azione ridotto e non mondiale.
“I romani consideravano Annibale nient’altro che un giovane testardo che avrebbe potuto essere schiacciato dalle legioni assai più fresche e meglio disciplinate”. (P. Matyszak). Ben triste fu la realtà per le potenti legioni romane e per i due consoli: Publio Cornelio Scipione e Tiberio Sempronio Longo. Sul fiume Ticino avvenne il primo scontro e fu disastroso per i romani. La netta superiorità della cavalleria cartaginese fece la differenza. “Lo stesso Scipione fu colpito da una lancia, e si salvò unicamente per l’intervento del figlio, un ragazzo diciassettenne ancora con la toga pretesta, che come lui si chiamava Publio e che già appariva come un giovane dal fulgido avvenire.” (A. Spinosa). Il ragazzo diventerà infatti uno dei più grandi strateghi militari della storia antica, Scipione l’Africano, che sconfiggerà Annibale a Zama nel 202 a.C. sul fiume Trebbia.
Gli stratagemmi del generale cartaginese e la forza della sua cavalleria spazzarono via i legionari del console Sempronio Longo: altro trionfo di Annibale. “Subito contingenti celtici andarono ad impossessare le forze cartaginesi, mentre la sollevazione delle popolazioni della valle padana costringeva le truppe romane ad attestarsi a Cremona e Piacenza per l’inverno: le due colonie, fondate soltanto pochi mesi prima, resistettero ai galli fin oltre la fine della guerra e caddero nel 200..In sostanza, però, la comparsa di Annibale aveva annullato i risultati della conquista romana del 225 – 222: il lavoro sarebbe stato ripreso, con un piano organico di romanizzazione, solo nei primi decenni del II secolo” (G. Clemente).
Il terrore dilagò nell’Urbe e tutti temevano che i cartaginesi si sarebbero rapidamente rovesciati in Campidoglio. Persa la Gallia Cisalpina Roma era in preda alla paura; le uniche note positive venivano dalle vittorie in Spagna, che di fatto impedivano i contatti tra la penisola iberica e le armate di Annibale in Italia. “Roma non era abituata alla sconfitta. La percossa fu violenta, ma in un certo senso salutare. Servì a prendere coscienza della gravità delle cose, mentre fino ad allora si era voluto considerare Annibale un avventuriero imprudente, magari fastidioso, ma nulla più. Ciò che aveva colpito maggiormente i romani, al di là del disastro militare già così eloquente in se stesso, era il passaggio in massa delle tribù galliche padane sotto le insegne di Annibale. Si aveva l’impressione che una parte d’Italia, proprio quella che doveva garantire la frontiera, fosse andata perduta, distaccata da Roma. Anche le città etrusche si agitavano e le popolazioni fenice in Sardegna attendevano l’arrivo della flotta cartaginese per insorgere.” ( G. Granzotto).
4. Caio Flaminio Nepote: un riformatore
La situazione militare e politica l’avrebbero dovuta fronteggiare i nuovi consoli, che si dovevano eleggere nel marzo del 217 a. C. La scelta cadde su Gneo Servilio Gemino, aristocratico e personaggio affatto appariscente, e sul popolare Caio Flaminio Nepote, già console nel 223, che aveva portato a termine con successo una spedizione contro gli Insubri, diventando uomo forte del partito popolare e idolo della plebe romana. Già negli anni precedenti aveva sostenuto una politica radicale a favore dei piccoli proprietari terrieri e per limitare l’attività commerciale dei senatori e, pertanto, si era scontrato duramente con l’oligarchia senatoriale a cui intendeva limitare privilegi e potere a favore delle classi sociali più deboli.
“Nel periodo di tempo compreso fra il 222 ed il 218 fu preso un importante provvedimento il cui significato può essere compreso solo se visto sullo sfondo di un grande movimento democratico, in una situazione di lotta fra la nobiltà e la risorgente democrazia. Si tratta della legge Claudia, così chiamata dal nome del tribuno della plebe Quinto Claudio che la propose e la presentò all’assemblea popolare contro il volere del senato. In questa occasione Claudio fu sostenuto da Caio Flaminio, capo del partito democratico romano negli anni dal ’40 al ’20” ( S.I. Kovaliov). Secondo le parole di Tito Livio, la legge imponeva delle regole ben precise “che nessun senatore o figlio di senatore potesse possedere una nave di capacità superiore a 300 anfore”. Tale capacità era considerata sufficiente per il trasporto di cose per consumo personale. Era infatti considerato vergognoso per i senatori occuparsi di commercio.
La legge Claudia costrinse i senatori a non occuparsi più direttamente del commercio marittimo, se non attraverso prestanomi di comodo. Un’operazione probabilmente tesa anche ad incrementare gli investimenti in agricoltura. La legge del tribuno Quinto Claudio fu la mediazione degli interessi fra il ceto dei cavalieri e la parte democratica plebeo – contadina contro la nobiltà e l’oligarchia senatoriale. Inoltre, nel periodo compreso tra il 240 e il 230, quando Caio Flaminio ricopriva il ruolo di tribuno della plebe, riuscì a far approvare, contro l’opinione del senato attraverso i comizi tribuni, la distribuzione ai cittadini di piccoli appezzamenti di terreno nelle vicinanze di Rimini del cosiddetto ‘agro gallico piceno’, che di fatto era sottoposto al diritto di occupazione esclusivamente da parte dei senatori. Questa divisione della terra dell’agro gallico fu il pretesto che spinse i galli ad una nuova invasione dell’Italia centrale. Nel 225 i galli cisalpini (boi, insubri prevalentemente) e un gran numero di mercenari d’oltralpe penetrarono in Etruria fino a Chiusi, dove sconfissero le legioni romane. Carichi di bottino risalivano verso la costa tirrenica; a Talamone furono stretti in una tenaglia tra due armate romane, una che sopraggiungeva dalla Sardegna e l’altra che nel frattempo si era riorganizzata dopo la sconfitta di Chiusi. Furono massacrati, lasciando sul terreno 40mila morti. L’aggressione dei Galli costituì la premessa per la penetrazione romana nella valle del Po. Nel 224 furono sottomessi i boi, nel 225 il console Caio Flaminio mosse contro gli insubri che, forti di un esercito di 50mila uomini, furono sconfitti sulla riva destra del fiume Chiese. “Flaminio, non fidandosi dei cenomani, ordinò loro di rimanere sulla riva sinistra del fiume e fece distruggere il ponte. In questo modo egli si garantiva dal tradimento di parte dei suoi alleati e nello stesso tempo metteva i romani davanti alla necessità di vincere o di morire poiché non era possibile passare il Chiese a guado e di conseguenza le linee di ritirata erano tagliate” ( S.I. Kovaliov).
Per questa vittoria Caio Flaminio ebbe l’onore del trionfo, decretato dall’assemblea del popolo contro il parere del senato. Nel 222 la guerra contro gli insubri proseguì fino alla conquista di Mediolanum. Gli insubri e i boi erano sconfitti, ma solo per il momento. Inoltre, quando fu eletto censore nel 220, diede inizio alla costruzione del Circo Flaminio a Roma e della via Flaminia, rafforzando così i precedenti insediamenti nella zona ed allargando la sua già considerevole influenza. Caio Flaminio aveva notevolmente allargato la propria influenza politica, quando nel 227 era stato il primo pretore a governare la provincia di Sicilia. Nella sostanza un grande personaggio di Roma, un grande capo democratico che sfidò il potere conservatore dell’oligarchia senatoriale.
Ma Flaminio, uomo forte e di carattere, non privo di talento politico e capacità organizzative, era troppo uomo di parte, troppo legato allo scontro politico cittadino per tenere quel distacco necessario per affrontare con serietà e freddezza una guerra. Il giudizio di T. Mommsen però appare fazioso e influenzato da storici del tempo filosenatoriali: “demagogo inebriato dal cieco amore per la plebe”, un “generale inetto, il cui talento brillava assai più nel Foro che sui campi di battaglia”. Polibio scrive che l’aristocrazia romana “temeva una vittoria di Flaminio al pari di una vittoria di Annibale”. Il punto politico era che la città era divisa e che comunque restava irrisolta la questione che a Roma i leader politici erano anche i capi militari, ma con un nemico dalle capacità di Annibale non c’era soluzione istituzionale più inadeguata.
5. Prima della battaglia del Trasimeno
Il Senato non concesse l’impiego di forze straordinarie e quello che fu peggio, temendo la discesa di Annibale verso Roma, non potendo prevedere la via, divise i corpi consolari, Flaminio fu diretto ad Arezzo, Servilio a Rimini. Un errore drammatico, che lasciava la valle Padana ad Annibale. “Era un disegno di guerra dissennato, costruito troppo evidentemente in odio a Flaminio prima ancora che in odio ad Annibale.” (G. Granzotto).
Partì da Roma, il console Flaminio, senza celebrare gli auspici rituali, l’indignazione del Senato fu tempestosa, un ateo era stato posto a capo dello Stato! Mentre Roma reclutava un nuovo esercito, Annibale svernava a Bologna. In primavera attraversò l’Appennino passando per il passo Collina e il medio corso dell’Arno, dove perse la vista ad un occhio a causa di un colpo di freddo preso in una zona paludosa (B. H. Warnington). Per Gianni Granzotto si trattò “di una irritazione del bulbo oculare, infiammato dalla stanchezza, dall’insonnia, dalle febbri dell’ambiente paludoso; e soprattutto dall’umidità che per tanti giorni e tante notti stillava in ogni dove. L’infiammazione che porta ad annullare le capacità visive è infatti di origine traumatica e colpisce la coroide, una delle tuniche che difendono l’occhio proprio sopra la retina. Il nome che si dà a questa malattia è uveite, una forma acuta di oftalmia. Forse avrebbero portato rimedio il riposo e l’immobilità. Annibale invece passava le notti all’aperto e stava in marcia tutto il giorno. Annibale s’era messo una benda nera sulla faccia....ma l’uveite, una volta compiuta la sua distruzione, non dà dolore e nemmeno deturpa le linee del volto. La benda nera di Annibale fu presto tolta. Rimase solo lo sguardo vuoto della pupilla senza forza. E Annibale quello di prima”.
La primavera del 217 fu eccezionalmente piovosa. Le truppe procedevano sotto un temporale continuo, quando superarono i monti e arrivarono nelle pianure attorno all’Arno queste si eramo trasformate in vere e proprie paludi. Uomini e animali marciarono nel fango, sotto la pioggia di giorno e di notte per quattro giorni, spostandosi appena di qualche chilometro con grande fatica. L’unico riposo che riuscivano a procurarsi era accovacciarsi sulle bestie da soma affogate nel fango e sui bagagli ammucchiati. I galli dettero grandi segni di insofferenza e non abbandonarono la spedizione solo perché ritenevano non meno difficile indietreggiare che proseguire. Sul dorso dell’ultimo elefante sopravvissuto, il mitico Surus, Annibale finalmente giunse a Fiesole.
Flaminio è ad Arezzo e tutto attorno i cartaginesi mettono a ferro e fuoco l’Etruria, saccheggiando ed uccidendo. Servilio è richiamato, lascia Rimini e velocemente si dirige a Senigallia, Fano, si indirizza a Foligno sulla via Flaminia, costruita tre anni prima proprio dal suo collega console. Flaminio vuole affrontare Annibale con tutte le legioni a disposizione, per questo temporeggia, subisce le provocazioni cartaginesi, impotente assiste alle devastazioni delle campagne e dei villaggi etruschi. Flaminio non può far altro che seguire a debita distanza le forze cartaginesi per impedire che Annibale affronti da solo Servilio.
Annibale deve impedire che i due consoli si riuniscano. Improvvisamente, il colpo di genio, cambia rotta, spariglia le carte degli schieramenti. Sotto Cortona svolta verso oriente, converge a sinistra dalla parte del Lago Trasimeno, la direzione non è più verso Roma ma verso Perugia. Flaminio lo segue ma teme la superiorità della cavalleria cartaginese e sospende le ricognizioni, lo segue a vista.
6. Lo stratagemma, la battaglia, la morte del console Flaminio
Il 20 giugno l’esercito di Annibale accelera, arriva al Lago Trasimeno almeno 2 o 3 ore prima di Flaminio. Il console romano al tramonto accampa le legioni in vista del lago, alcuni chilometri più indietro. Flaminio diffida e continua a non inviare pattuglie di cavalleria in perlustrazione. Annibale trova una stretta del terreno per costringere Flaminio a transitarvi senza possibilità di manovra e lì di coglierlo di sorpresa.
La battaglia del Trasimeno è oggetto di più di 150 anni di studi approfonditi, di analisi delle fonti, di comparazione del livello del lago, di studi del terreno, di ricerche archeologiche. Le tesi avanzate dal prof. Giovanni Brizzi dell’università di Bologna, uno dei più prestigiosi studiosi delle vicende annibaliche, appaiono quelle che ormai riscuotono un generale consenso. Flaminio si accampa sulla piana di Borghetto, mentre Annibale, attraverso lo stretto passaggio del Malpasso, fissa il proprio accampamento ben visibile sullo sprone di Tuoro, naturale propaggine del monte Castelluccio che taglia in due la costa del Trasimeno. Dopo il Malpasso il terreno si allarga in una conca più vasta, la piana di Tuoro. Annibale apposta tra il Malpasso e la balza di Sanguinetto la fanteria celtica, a Sanguinetto 10mila cavalieri ispanici, celtici e numidici; l’accampamento dello sprone di Tuoro è presidiato dalla fanteria pesante dei libici e degli ispanici, ancora più a est, nel vallone del torrente Navaccia, fino a dietro il colle Mariottella sono schierati i frombolieri delle Baleari e la fanteria leggera. Di fronte alle sponde del lago Trasimeno uno schieramento a semicerchio terribile per qualunque forza si fosse avventurata oltre il Malpasso.
Annibale contava una fanteria iberica e libica di circa 12mila uomini, 8mila fanti veterani cartaginesi, 10mila galli e 10mila effettivi di cavalleria. Flaminio disponeva di quasi 2mila uomini, divisi in 8 – 10 mila legionari, altrettanti alleati italici, 100 arcieri cretesi, circa 3mila e cinquecento cavalieri tra romani e alleati.
Nelle prime ore del mattino del 21 giugno 217 i romani entravano nella gola fatale. Quando la colonna aveva inconsapevolmente superato i reparti cartaginesi a ridosso del Malpasso, partì l’attacco. La zona era ricoperta da una fitta nebbia. Il professor Brizzi calcola che entrarono tra i 15mila e i 17mila romani nella piana di Tuoro, assieme al console Flaminio e alla sua guardia del corpo. I romani si videro improvvisamente piombare addosso, comparsi dal nulla, nemici da ogni parte: di fronte, alle spalle, da destra e da sinistra. Livio racconta: “L’attacco si rivelò per i romani più inaspettato ed improvviso perché si erano levati dal lago dei banchi di nebbia che era andata ad addensarsi più sulla pianura che sulle montagne. In questo modo le colonne dei nemici si scorgevano l’un l’altra abbastanza agevolmente dalle colline e fu dunque possibile rendere simultaneo l’attacco. I romani si resero conto di essere circondati dalle grida che sentivano da ogni parte prima ancora di vedere il nemico e furono costretti a combattere sulla fronte e sui fianchi, prima ancora di poter organizzare lo schieramento, prendere le armi ed impugnare le spade”. La battaglia era perduta, per Flaminio e i suoi legionari, già prima di essere combattuta.
Polibio afferma “la maggior parte degli uomini fu massacrata mentre si trovava ancora in ordine di marcia”. Livio scrive: “allora ognuno divenne comandante e consigliere di se stesso per quella battaglia. Quello che scoppiò fu un nuovo scontro che iniziava in quel momento: non c’era la suddivisione in principi, astati, triari; non c’erano gli antesignani a combattere davanti alle insegne e il resto dell’esercito a combattere dietro le insegne; i soldati non badavano più se erano inseriti nella loro legione, nella loro coorte, nel loro manipolo. Era il caso di metterli insieme, ed era la volontà di riscossa dei singoli ad assegnare il posto ad ognuno, davanti o dietro”. Flaminio combatté da coraggioso cercando di organizzare una impossibile difesa. Cadde per mano di un celta insubro, di nome Ducarone, il quale cercò subito di decapitarlo come l’ancestrale costume celta imponeva. Il corpo del console fu difeso strenuamente da un manipolo di legionari, ma ben presto furono sopraffatti anche loro.
I romani resistettero per ben tre ore, in una condizione allucinante, con un tale accanimento che nessuno si accorse del terremoto che, contemporaneamente, sconquassò l’Umbria. Alcuni romani cercarono di salvare la vita tuffandosi nel lago, ma o morirono annegati o furono raggiunti dalla cavalleria cartaginese per essere uccisi o fatti prigionieri, altri si suicidarono. Circa 6mila romani sfondarono le linee nemiche nella nebbia e riuscirono a raggiungere la cima del monte Castelluccio, solo per rendersi conto di essere ormai fuori dalla battaglia.
Livio scrive: “Potendo soltanto sentire le grida e il fragore delle armi, non erano in grado né di sapere né di vedere, a causa della nebbia, quale fosse l’esito della battaglia. Soltanto quando lo scontro fu alla stretta finale e il giorno aperse grazie al calore del sole che aveva dissipato la nebbia, nella luce che impallidiva l’aria i monti e la pianura mostrarono il disastro e l’esercito romano orribilmente annientato”. Si asserragliarono nel villaggio etrusco chiamato Trasimena, fin quando il giorno dopo le truppe di Annibale li assediarono e li costrinsero alla resa. Gli italici furono liberati, i romani fatti prigionieri. Il professor Brizzi calcola che i morti romani furono tra gli 8mila e i 10mila, le perdite di Annibale ammontarono a 1.500/2500 unità, in prevalenza galli. In 10mila circa non fecero in tempo a cadere nella trappola di Annibale e salvarono la vita; molti disertarono altri raggiunsero Roma. Il corpo di Flaminio non fu ritrovato, perché decapitato e spogliato della sua ricca armatura, impedendo ad Annibale di rendergli onore con una sepoltura degna di un valoroso nemico e di un console romano. I corpi dei caduti furono cremati negli ustrina di cui la zona di Tuoro è, a tutt’oggi, disseminata.
Servilio, l’altro console, stava arrivando da Foligno, anticipato dalla cavalleria, 4mila uomini al comando del pretore Caio Centennio. Arrivati in vista del lago Trasimeno, videro un’immensa carneficina e tornarono indietro per fermare le legioni di Servilio. Ma la cavalleria numida, guidata da Maarbale, li inseguì e li raggiunse nella valle del Topino presso Assisi. Furono tutti uccisi o fatti prigionieri. Annibale era a 150 chilometri da Roma e a difenderla non c’era un solo legionario. Scrive Tito Livio: “Annibale per la via breve attraverso l’Umbria giunse a Spoleto. Saccheggiato il territorio, avendo cominciato ad assalire la città ed essendo stato respinto con grande strage dei suoi, intuendo delle forze di resistenza di una semplice colonia, con infelice esito aggredita, qual grave impresa sarebbe stata quella di un assalto a Roma, deviò il cammino verso il territorio del Piceno....”. L’eroica resistenza di Spoleto vive ancora oggi attraverso i versi dell’ode carducciana “Alle fonti del Clitunno”.
7. La vittoria di Canne, la sconfitta di Zama, la morte in Asia
Nel 216 Annibale inflisse ai romani una serie di sconfitte che evidenziarono le sue grandi capacità militari fino al suo capolavoro, che culminò con la distruzione di due eserciti consolari a Canne. Dopo Canne Roma evitò altri scontri diretti con l’esercito del cartaginese, ma gli permise di conservare il controllo di gran parte dell’Italia meridionale. La posizione di Annibale divenne disperata dopo l’insuccesso di Asdrubale, che non riuscì a portargli gli indispensabili rinforzi dalla Spagna nel 207. Nel 203 fu richiamato a Cartagine per fronteggiare Scipione l’Africano. A Zama, nel 202, l’allievo superò il maestro: Scipione sconfigge Annibale. Giovanni Brizzi, scrivendo su Publio Cornelio Scipione: “…aveva infatti imparato a sue spese che il talento di Annibale era una riserva inesauribile di espedienti e risorse, e non poteva escludere che il grande cartaginese sapesse trarne intuizioni nuove e sufficienti a beffarlo un’altra volta…….Così Publio si chiedeva se davvero quel cartaginese, che pure egli aveva apparentemente sconfitto, non restasse, in realtà, il più grande di tutti i maestri”. Cartagine accetta il trattato di pace proposto dal vincitore. Gli avversari politici cartaginesi costrinsero Annibale a fuggire da Cartagine nel 195 ed egli si rifugiò presso la corte di Antioco III. La sua presenza in Asia ed il suo attivismo terrorizzò il senato di Roma, che temeva che stesse predisponendo un’altra invasione dell’Italia. Dopo la sconfitta di Antioco Annibale si rifugiò presso Prusia I di Bitinia e si suicidò nel 183, quando Roma mandò Flaminio a pretendere la sua consegna.
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