di Luigi Manconi

Nel 2015 il dibattito sulla tortura nel nostro paese ebbe una accelerazione a seguito della condanna da parte della Corte europea dei diritti umani nei confronti dell’Italia per le violenze degli apparati di polizia messe in atto durante i giorni del G8 di Genova (2001), in particolare per il comportamento tenuto in occasione dell’irruzione notturna nella scuola Diaz.

La Corte stabilì che l’Italia doveva adeguare il proprio ordinamento, sul piano «strutturale», con una legge penale e dotarsi di strumenti utili a prevenire il ripetersi di abusi simili.

Nel 2017, dopo quattro anni di discussioni, emendamenti e modifiche, la Camera approvò il disegno di legge che introduceva il reato di tortura nell’ordinamento italiano. E ciò a ventotto anni dalla ratifica da parte dell’Italia della Convenzione delle Nazioni Unite in materia. Si tratta di un testo diverso da quello originario, che riproduceva esattamente la normativa proposta dall’Onu.

Le differenze cruciali che hanno fatto della proposta iniziale una legge parziale sono essenzialmente tre.

La prima. Il reato è comune e non proprio: ovvero attribuibile a chiunque e non imputabile solo ai pubblici ufficiali e a chi esercita un pubblico servizio. Un reato, dunque, che non deriva dall’abuso di potere di un funzionario dello Stato ma da una qualunque forma di violenza tra individui.

La seconda. La necessità che vi sia una pluralità di violenze e di minacce e il ripetersi di più condotte perché si verifichi la tortura. Il rischio è che una violenza esercitata da un singolo ufficiale su una persona oppure una violenza non reiterata e non protratta nel tempo non rientri nella fattispecie di tortura.

La terza. La pretesa che vi sia una verificabilità oggettiva – tramite tac? – del trauma psichico derivante da tortura.

Nonostante tutti questi limiti l’introduzione nel nostro ordinamento di quel reato ha rappresentato una svolta importante per quanto così tardiva. Ne è conferma il fatto che, dal 2017 a oggi, il reato di tortura è stato contestato a numerosi imputati in diversi procedimenti giudiziari: da Ferrara a San Gimignano, da Torino a Firenze Sollicciano, fino a Santa Maria Capua Vetere, in genere a carico di appartenenti alla polizia penitenziaria.

Come prevedibile, la presenza di quel reato nel nostro codice non è piaciuta ad alcuni e, in particolare, ai sindacati delle forze di polizia. Presumibilmente, è a seguito delle pressioni provenienti da quelle organizzazioni che, in certi settori della destra italiana, si è parlato, da subito, di radicali modifiche, se non di una vera e propria abolizione della normativa in questione.

Nel luglio del 2018, se ne fece interprete Giorgia Meloni con un tweet: «Abbiamo presentato due proposte di legge per aumentare le pene a chi aggredisce un pubblico ufficiale e per abolire il reato di tortura che impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro». Successivamente, il tweet è stato cancellato dal suo profilo.

Intanto, la discussione prosegue tra ipocrite rassicurazioni e reali minacce. Il presidente della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, Ciro Maschio (FdI), tranquillizza: la proposta di legge risale a novembre e non è «ipotizzata la calendarizzazione».

Ma il Presidente dei deputati del medesimo partito, precisa: «Non si tratta di abolire il reato di tortura ma tipizzarlo come nelle convenzioni internazionali». Frasi senza senso. Verrebbe da dire: all’erta.

Fonte: Facebook

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