Siamo fuori fase, il lavoro è fuori mercato
di Tommaso Di Francesco, tratto da ilmanifesto 27.10.2020
Mentre la pandemia rincrudisce, c’è una sola certezza. Per il capitale, per le istituzioni finanziarie d’affari che lo rappresentano anche internazionalmente e per la Confindustria la sospensione del lavoro produttivo subalterno (e del consumo individuale) è un atto intollerabile. Tutto si può limitare, quello giammai. Mentre da più parti – fuori dalle fabbriche e dai luoghi considerati direttamente produttivi – cominciano le proteste delle categorie meno sicure nel reddito e più colpite dai nuovi mini-lockdown, che rischiano di agitare una guerra di tutti contro tutti e con le disuguaglianze destinate ad aumentare.
Ma è altrettanto intollerabile per questo governo, sentendo il presidente dal consiglio Conte che dichiara di volere salvaguardare «la salute e l’economia»? E per l’Unione europea, fino a pochi mesi fa vincolata al predominio di poche nazioni e alla ideologia ordoliberista tedesca, e che ora «grazie» alla pandemia è costretta a rivedere l’atteggiamento sul debito?
Le domande tornano utili ora che si dovrebbe elargire il Recovery Fund – quando fu deciso, l’Italia era il paese più colpito dal Covid-19, più bisognoso e pronto a tutti i costi a riprendere ogni attività produttiva con la richiesta, per la prima volta, di finanziamenti «a fondo perduto»; mentre ora i Paesi più colpiti sono Spagna, Francia, Belgio e non solo.
Era la «Fase due», sotto questo doppio ricatto. Ora a che fase siamo? Potremmo dolorosamente dire «fuori fase».
Con l’emergere del ruolo contraddittorio delle «contee» che autonomamente vanno a provvedimenti di chiusure e sospensione, senza contropartite, di forme di socializzazione che cominciano a rasentare la limitazione della libertà – che accadrà con la scellerata «autonomia differenziata» è mostruoso da immaginare.
È un fuori fase che subito pesa sulle condizioni di ripresa delle attività, quelle legate alle forme della socializzazione, quelle dei servizi – a cominciare da quelli sanitari pubblici prima disprezzati e ora all’improvviso diventato «eroici» e quelli della cultura, del cinema e del tetro che tornano ad essere considerati «tempo libero» e non produttori a tutti gli effetti. E che pesa come un macigno, ma di questo si tace, sul lavoro considerato direttamente produttivo. Un peso e un pericolo che precipita sulle spalle dei lavoratori e del sindacato e sulla democrazia che vive nei larghi spazi. In scacco appare anche la scuola che pure ha riaperto.
Fatto singolare il capo della Confindustria Bonomi scalpita, zufola e rimbomba. Vuole la normalità del mercato, a partire dalla libertà di licenziare subito o quanto prima, covid o non covid: un attacco che trasforma il cosiddetto lavoro subalterno garantito nella condizione prossima di precariato diffuso e sotto ricatto. Perché si agita tanto? Perché la condizione di pandemia svela che il re è nudo: gli salta sotto gli occhi il principio del comando sul lavoro. E invece si rende evidente che il lavoro.
Il salario e le imprese sono sovvenzionate dallo Stato, mentre i profitti restano privati. Per il lavoro infatti è bene dire che il riavvio non c’è mai stato: durante il lockdown dei mesi scorsi hanno continuato a lavorare 16,218 milioni di persone, pari al 69,6% della popolazione attiva, mentre un abbondante 30% è rimasto a casa (circa 7 milioni di lavoratori); invece dal 4 maggio fino ad oggi con la «fase due» lavorano ben 20,626 milioni di persone, circa l’86% del totale degli attivi.
Insomma, si chiudono bar e ristoranti alle 18, e si avviano chiusure generalizzate per fermare le notti «dell’aperitivo categorico» dalle 24 alle 5, ma si dimentica che milioni di persone lavorano in contro-orario dalle 5 alle 18, o alle 24. Ci si chiede: con quale distanza sociale nelle fabbriche, nei trasporti, e senza riduzione di orario per ridurre l’esposizione al rischio, visto che lo smart warking copre solo una minima parte dell’erogazione di lavoro? Intanto i contagi corrono. E stavolta tutto il mondo dei virologi prevede una lunga durata e una ripresa della pandemia.
Così decine di morti al giorno nelle aree del nord e non solo – delle fabbriche disseminate in aree interregionali raggiunte con trasporti precari a dir poco -, non sono marginali. Soprattutto si dimentica che non ci sono le condizioni sanitarie diffuse, dopo decenni di tagli alla sanità pubblica, di azzeramento di ogni prevenzione e di dilatazione del ruolo del privato (sempre garantito da soldi pubblici).
Nel silenzio quasi assoluto – rotto però, è bene ricordarlo, da scioperi operai nei primi mesi della pandemia – milioni e milioni di lavoratori in questi quasi 9 mesi, hanno continuato senza sosta a lavorare, un lavoro «forzato», che non può essere rifiutato nemmeno per difendere la propria salute, nelle fabbriche e nelle campagne.
È questa la protesta che manca, la sola che può unificare sotto il segno della solidarietà il disagio sociale e impedire una guerra intestina dentro lo stesso mondo del lavoro, tra «garantiti» e non. Intanto tra una task force e l’altra – sempre affidate a eminenti figure del mercato come Colau – è emerso il concetto mitologico di «lavoro eccezionale»; svelando, per esempio, che fabbricare armi e cacciabombardieri F35 è stata la filiera d’«eccezione» finalizzata alle guerre, che non si è mai fermata, come non si sono fermate le tante fabbriche «essenziali» che hanno devastato ambiente e salute come l’Ilva.
L’ultimo Dpcm assegna al comparto della difesa – armi e tecnologia di riferimento – ben 12 miliardi di euro di investimenti che si aggiungono ai già stanziati 26 miliardi, che – sempre per fare un esempio – andranno ad oliare gli investimenti della «nostra» Leonardo nella guerra in corso nel Nagorno-Karabakh.
Così da una parte abbiamo avuto e continueremo ad avere il lavoro «necessario», magari in telelavoro e per il mercato internazionale, ma di produzione di morte. Con la corsa folle a riaprire le attività produttive per sfidare la concorrenza su fette di mercato che rischieranno l’iperproduzione.
Se la guerra è necessaria al mercato, con la pandemia e la sua globalizzazione infettiva, proprio no: che modello di salvaguardia della vita è esportare armi a paesi in guerra, e contro le nostre stesse leggi che lo vietano?
Al contrario, dall’altra parte, si è affermato in questi due mesi di contagio, il lavoro di cura, non più nel solo ambito ristretto della famiglia ma nella società, e ha assunto «dignità» l’intero comparto del lavoro nero, dai braccianti, ai migranti, ai rider – questi ultimi soggetti ai ricatti più vergognosi.
C’è dunque un conflitto sotterraneo che la pandemia ha aperto e che va fatto emergere: il lavoro «necessario» o essenziale può essere solo quello riconvertito nella produzione materiale secondo una domanda sociale e collettiva e a salvaguardia della salute e dell’ambiente, come da dettato della Costituzione. Come? Cominciando a considerare il lavoro stesso come fuori mercato, reinventando – su questo il Sindacato più consapevole dovrebbe intervenire non stare a guardare – cosciente che proprio la pandemia propone forme organizzative dirette e autogestite – sulle modalità concrete della sua redistribuzione.
Garantendo, in una fase che fa esplodere i dati sulla povertà di massa, un reddito di base capace di proteggere ogni lavoratore occupato ma anche ogni disoccupato: dai danni della pandemia ma anche dal bisogno e dai ricatti del lavoro.
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