Si può fare senza Europa?
di Roberto Romano
Forse il Parlamento europeo potrebbe intervenire per correggere i più gravi errori del nuovo Patto di Stabilità Europeo e potrebbe diventare una occasione per riconsegnare al Parlamento il ruolo di vero “gendarme” della democrazia. È già successo: il 27 novembre del 2018 il Parlamento Europeo vota contro il progetto della Commissione di inserire il Fiscal Compact all’interno del diritto comunitario. Considerate le diverse e numerose prese di posizione forse conviene riflettere su questa opportunità, sapendo che all’Europa un nuovo Patto e un nuovo Bilancio Europeo non inferiore al 10% del Pil servono come l’aria che si respira. Diversamente sarebbe difficile misurarsi con le grandi potenza internazionali. Infatti, gli US hanno stanziato 2.000 miliardi di dollari a favore di reti stradali, acquedotti e ponti, ferrovie e banda larga digitale nel rispetto della transizione energetica e ambientale (American Rescue Plan, 2021), seguito dall’Inflation Reduction Act (IRA, 2023) che stanzia una quantità di sussidi senza precedenti per convincere le imprese a tornare a investire negli Stati Uniti. In effetti, la distribuzione del PIL a prezzi costanti di quasi tutti i Paesi europei è una frazione di quello che sarebbe necessario per giocare alla pari con il colosso US e cinese. Inoltre, nel tempo l’Europa è diventata via via sempre più marginale nel consesso internazionale. In altri termini, è auspicabile l’intervento del Parlamento europeo, oppure delineare delle soluzioni macroeconomiche adeguate. Al netto di quello che sarebbe necessario fare a livello europeo, cioè superare l’obbiettivo di deficit all’1,5% e la riduzione di un punto il debito pubblico, il problema dei problemi è il modello economico sotteso alla programmazione settennale di correzione dei conti pubblici (DSA), attraverso il quale la Commissione Europea predisporrà dei piani nazionali di spesa e giudicherà le proposte dei paesi sulla base di questo modello. Qualora l’obbiettivo della riduzione del debito diventasse più importante di quello del deficit, l’avanzo primario, cioè le entrate e le uscite dello Stato al netto della spesa per interessi, dovrebbe essere pari a poco più del 3% del PIL. Sostanzialmente una politica di austerità financo peggiore di quella del vecchio Patto europeo. Limitare i danni è indispensabile, anche se farlo paese per paese è complicato. Se il bilancio pubblico rimane costretto dentro i vincoli richiamati, la politica economica deve assolutamente intervenire con dei provvedimenti che richiamano le buone riforme di struttura.
Occorre che il salario ritorni ad essere parte delle politiche macroeconomiche e, soprattutto, lasciare alle spalle le fantomatiche riduzioni delle tasse su di esso. È possibile riordinare le norme che regolamentano l’ingresso nel mercato del lavoro, e riscrivere la matrice e il numero dei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro per riequilibrare i rapporti di forza tra capitale e lavoro. Inoltre, dobbiamo condizionare il capitale e in particolare gli investimenti privati. È una buona pratica socialista, sebbene andata in disuso, ma data la specializzazione del nostro tessuto economico è indispensabile questa operazione. Dalla statistica sappiamo che la ricerca e sviluppo è sostanzialmente pubblica; quindi, possiamo immaginare una sorta di fondo sovrano che sostenga l’industrializzazione della ricerca pubblica da parte di soggetti privati, guidato da un “Ministero dell’industrializzazione della ricerca pubblica”. L’obbiettivo è quello di cambiare il motore della macchina dell’industria privata senza fermarla.
Dobbiamo assolutamente riformare la Pubblica Amministrazione. Per fare ciò è necessario riprogettare la spesa pubblica (1.200 mld di euro) e, soprattutto, occorre farlo con giudizio. Così come è impostata la spesa pubblica nazionale è inefficace o, almeno, non è efficace come e quando dovrebbe essere. A seguire servirebbe una vera e propria programmazione dell’apparato pubblico, al cui centro deve esserci l’incremento dell’apparato di almeno 600.000 nuovi dipendenti, tecnici orientati sulle grandi missioni del PNRR.
Servirebbe anche un certo coinvolgimento della società civile. Il CNEL seriamente riformato potrebbe diventare quella “Camera alta” che unisce società civile, politica e istituzioni del Paese. Si eviterebbe lo scempio istituzionale intervenuto durante l’analisi del salario minimo.
Quello che suggerisco sono degli interventi di struttura nel mercato. Sarebbero provvedimenti normali in una sana social democrazia, ma la latitanza europea li rende urgenti.
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