di Elio Clero Bertoldi
Seid Visin aveva ventanni. Età di formazione, da un lato luminosa, ricca di slanci e di speranze e dall’altro, in genere, acerba. Questo ragazzo al contrario, di maturità e di sensibilità ne mostrava anche troppa. In dose massiccia. É sufficiente leggere la lettera che, appena due anni fa, aveva redatto e inviato agli amici ed alla psicologa che lo seguiva. Uno scritto profondo, argomentato, confezionato in un bell’italiano, che i leoni di tastiera dei giorni nostri, se lo sognano. Scaturito e in risalito dal profondo, da qualcosa che bruciava e macerava dentro questo ragazzo già adulto. Fosse il razzismo nei suoi confronti, plateale o latente, di cui si sentiva vittima, almeno a quell’epoca, il 2019, o ci fosse dell'altro ad arrovellare, a tormentare la sua coscienza, il suo “Io” interiore.
Già perché se dalla lettura dei primi resoconti, alla luce di quella testimonianza (o, se si vuole, di quel testamento spirituale) si era ritenuto che le ragioni del suicidio risiedessero e si radicassero nel fatto che Seid, etiope adottato da una famiglia italiana, soffrisse indicibilmente per come gli altri lo approcciavano per via della sua pelle scura (anche se i compagni di squadra delle giovanili del Milan, da Donnarumma a Locatelli, assicurano di non aver mai notato nell’amico questo atteggiamento, questo sentimento e descrivono piuttosto il giovane come solare, estroso, giocoso, amante dello sport e del ballo), dopo qualche giorno e sulla scorta delle dichiarazioni del padre, sono emerse - anche se non rese, giustamente, note (quale genitore metterebbe in piazza i sentimenti ed i segreti di un figlio?) - motivazioni altre. 
“Quid est veritas?”, si legge nei testi antichi. Nessuno la verità, piccola o grande che sia, l’ha in tasca. E della verità, su questa terra ed in qualunque campo, conosciamo soltanto una parte minima, uno spicchio. Che ciascuno osserva dal proprio angolo di visualizzazione, più o meno favorevole, mentre chi é a qualche passo di distanza e guarda da un’altra posizione - come insegna un vecchio film di Akiro Kurosawa, “Rashomon” del 1960 (in bianco e nero, ma che tutti dovrebbero vedere) - si giova di un’altra prospettiva e racconta un’altra versione. Non meno valida della prima. 
E d’altro canto ciascuno di noi, che magari un tempo la pensava in un modo, viene talvolta spinto, se non costretto, da circostanze nuove, mutevoli, dal tempo che scorre o da argomentazioni più convincenti, più logiche e razionali, a cambiare parere. 
Sul caso di Seid bisogna sospendere il giudizio. Quanto meno in attesa di avere a disposizione un quadro più completo ed a più voci, che ci permetta uno sguardo panoramico, più complessivo. Meno umorale. E più distaccato, anche.
L’agghiacciante fine di questo ventenne, tuttavia, sollecita ad azzardare qualche riflessione generale. 
Il cuore e la mente rendono ogni uomo una figura complessa. In cui possono trovarsi miscelati insieme, quasi alla rinfusa, elementi, fattori all’apparenza distanti se non contrastanti: le tenebre e la luce, la felicità ed il dolore, lo spirito e la materia. Alcune personalità, che definiamo grandi - magari glorificate ed osannate dalla storia, dalla letteratura, dalle arti, dalla politica, dallo sport, appartenenti ad ogni attività umana, insomma - possiedono, o possedevano, angoli del loro carattere o del loro agire addirittura miserevoli; e, di contro, persone inqualificabili presentano, o presentavano, sia pure in piccole quantità, sentimenti e comportamenti lodevoli. Facciamocene una ragione: noi tutti siamo impastati con con queste caratteristiche dal tempo dei tempi. Cioé da quando la nostra specie é apparsa sulla terra, sia stato l’avvento, frutto di una evoluzione incessante o figlio di una creazione “ex nihilo”.
Il suicidio di Seid, doloroso e straziante, può aiutare i razzisti, almeno quelli meno tetragoni, meno ottusi, a rivedere i propri pregiudizi, perchè gialli, neri, bianchi siamo tutti fatti allo stesso modo, con lo stesso ... materiale. E per di più deperibile.
Ed ancora quel gesto angosciante può giovare agli altri, di ogni latitudine, indistintamente, per riflettere e ragionare sulle proprie origini, sulle proprie debolezze, sulle proprie forze, sui propri limiti, sul senso dell’esistenza. Nessuno, qui ed ora, e forse mai pure nel futuro, si può proclamare portatore di una verità assoluta. A meno che non ci si abbeveri alla fonte della fede. 
Forse l’atteggiamento migliore, più consono a mitigare le proprie opinioni, i propri giudizi, a restare cauti e mai apodittici nei commenti (che oggi tutti, studiosi competenti o crassi ignoranti, spargono a piene mani, utilizzando i social, chi più chi meno in maniera intelligente) ci viene proposto da un altro suicida, il poeta e scrittore Cesare Pavese, che sul foglio di addio alla vita, vergò di suo pugno la frase: ”Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono... va bene? Non fate troppi pettegolezzi".
Ecco: scadere nel gossip di fronte al mistero insondabile della vita equivale a provocare un “vulnus” alla già gracile, fragile, limitata intelligenza della nostra specie, unica però sulla terra capace di razionalità. Ammonisce il sommo Dante, mettendo la frase in bocca ad Ulisse: “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtùte e canoscenza”. 
Per evitare di comportarci da animali privi di ragione, non resta che battere questa strada. 
 

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