Che l'aumento delle disuguaglianze tra i redditi dei paesi sia oggi un fatto acclarato, è una cosa, ma che tale aumento possa considerarsi il naturale prodotto di processi economici ineludibili, è ben altra cosa. Questa situazione è infatti l'erede diretta dell'ortodossia economica che domina da più di 30 anni e che ha giudicato salutare per l'economia la concentrazione del reddito, che così... godrebbe di maggiore efficienza e potrebbe crescere con maggiore slancio. A riprendere la questione in chiave storico-comparativa è Stewart Lansley dell'Università di Bristol con un intervento su opendemocracy.net.

La disuguaglianza come fattore di crescita è affidata a nomi importanti quali quello di Ludwig Von Mises, e trova seguaci autorevoli già negli anni Settanta. Con la pubblicazione nel 1975 dell'influente libro di Arthur Okun "Uguaglianza ed efficienza. Il grande trade-off" si afferma l'idea che troppa uguaglianza si traduca in inefficienza economica e di conseguenza in un reddito complessivo più ridotto.

Le vicende del secolo passato dimostrano però tutto il contrario: la Grande Depressione degli anni Trenta è stata preceduta da un lungo periodo di aumento nella disuguaglianza tra i redditi, così come l'approfondirsi delle disuguaglianze ha preceduto la crisi che stiamo attualmente vivendo. Al contrario, nel periodo che intercorre tra il secondo dopoguerra e la metà degli anni Settanta, la ripresa dello sviluppo si è accompagnata ad una maggiore equità nella distribuzione tra i redditi.

Una caduta eccessiva dei salari rispetto alla crescita della produzione non può che produrre una caduta dei consumi, esattamente come è avvenuto nella presente crisi. E contrariamente a quanto sostenuto dai fautori della disuguaglianza, l'ipertrofia finanziaria non ha portato a maggiori investimenti nell'economia reale, ma si è tradotta in pura speculazione, proprio mentre lo stesso consumo, privato della piena capacità di domanda, veniva drogato attraverso il mercato mobiliare.

Una forte sperequazione tra i redditi agisce peraltro come un filtro "a passo alto" sul ciclo economico, accentuandone i picchi in ambedue le direzioni, e allo stesso tempo rendendo molto lenta la ripresa una volta che si sia prodotto il crollo economico.

Per uscire da questa vera e propria trappola, sarebbe dunque necessario ristabilire una maggiore uguaglianza tra i redditi. Eppure, è proprio nel corso dell'attuale recessione che stanno emergendo ulteriori sperequazioni.

In tale contesto ciò che Lansley auspica è che il tema della disuguaglianza torni ad occupare un posto centrale nel dibattito economico e, in particolare, in merito al ruolo dell'intervento pubblico. Tanto è marginale la questione che, ad esempio, nel Regno Unito non si ha notizia di un solo modello di previsione economica che incorpori al suo interno la valutazione degli effetti sullo sviluppo di variazioni nella distribuzione del reddito.

Tanto per cominciare, bisognerebbe che indicatori che misurano la disuguaglianza tra i redditi venissero normalmente ad affiancarsi ad altri indicatori di uso comune, quali quelli relativi all'inflazione, alla produttività , alla crescita e alla disoccupazione.

"Finora" conclude Lansley"si è fatto un gran parlare della caduta dei salari e dell'ascesa dei profitti, ma di fatti se ne son visti pochi. Assicurare un migliore equilibrio tra queste due componenti è tanto importante per il successo dell'economia quanto controllare l'inflazione e gestire i deficit di bilancio. E tuttavia, abdicando alla loro stessa responsabilità, i governi dei maggiori paesi industrializzati, hanno favorito lo scivolamento delle proprie economie e di quella mondiale sul sentiero dell'autodistruzione."

Fonte: rifondazione.it  -  da Keynesblog

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