Reintegrato il bestemmiatore licenziato 5 secoli fa avrebbe rischiato la lingua
Elio Clero Bertoldi
Una bestemmia, forte e chiara. Tanto da essere pagata con il licenziamento in tronco.
L'episodio si era registrato a novembre, a Bologna. Il dipendente di un "call center" di una multinazionale (del quale è filtrato solo il nome, Franco), esasperato dal sistema informatico di gestione delle chiamate saltato per due volte consecutive, era esploso in una imprecazione.
Pochi giorni dopo - il 30 novembre, per buona ricordanza - ecco la lettera di cessazione del rapporto di lavoro speditagli dalla direzione aziendale. Tirare quel moccolo, gli era costato il posto di lavoro.
Adesso la vicenda - che ha visto i colleghi dell'operatore scioperare per tre giorni e organizzare un presidio di fronte alla sede aziendale - ha imboccato la strada della composizione: un esito non più drastico, più equilibrato rispetto all'episodio. Pienamente favorevole, insomma, al dipendente: il lavoratore ha ottenuto la reintegrazione, il licenziamento è stato annullato.
Tutto bene quel che finisce bene.
Intendiamoci: la bestemmia rimane, quanto meno (in Italia, dove fino al 1999 era un reato: adesso viene considerata un illecito amministrativo), una pesante volgarità, un comportamento da maleducato.
Un peccato grave per i credenti di qualsiasi religione (in qualche latitudine offendere la divinità fa correre l'alea, ancora oggi, della pena di morte); almeno una contraddizione per gli atei (se non hai fede in un dio, nell'esistenza di un essere supremo, che senso ha imprecargli contro?).
Tuttavia da qui a punire il bestemmiatore con la privazione del lavoro, ce ne corre. Anche dalle mie parti - che pure hanno sfornato tantissimi santi (e persino di primissimo livello, come San Francesco di Assisi e San Benedetto da Norcia) - l'imprecazione, nelle campagne, negli opifici, nelle città, resta dura a morire. Smoccolare come un facchino, un carrettiere, uno scaricatore di porto come si diceva un tempo, forse rappresentava uno sfogo contro il potere temporale dei Papi (l'Umbria è appartenuta allo Stato Pontifico "ab antiquo") o anche una sorta di intercalare e non una vera e propria negazione del divino.
Certo l'operatore bolognese è stato fortunato a nascere ai giorni nostri. Fosse vissuto all'epoca di Clelia Farnese (1566-1613), Signora di Sassuolo (in quanto seconda moglie di Marco Pio di Savoia), avrebbe corso il rischio di una punizione corporale davvero pesante. Ed irreversibile.
La nobildonna - che pure era figlia naturale di un cardinale (Alessandro Farnese e come tale avrebbe dovuto coltivare comprensione e prudenza, essendo nata nel peccato) - puniva, quale governatrice del suo piccolo Stato, i bestemmiatori con una multa di dieci scudi d'oro e con almeno un'ora di esposizione del condannato, legato alla colonna del Palazzo della Ragione con la lingua "in giova", cioè con la lingua sotto tiro e stretta da una morsa. Per i "relapsi" (i recidivi, insomma) la pena veniva raddoppiata e la lingua forata o addirittura tagliata perché, recitava la grida: "... si abbia a sradicare il pestifero vitio".
Oggi la punizione di Franco è stata cancellata dal reintegro; ai tempi della Farnese una volta tagliata, pur in presenza di un perdono o di un ripensamento, la lingua il bestemmiatore non l'avrebbe ... recuperata.
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