A 15 anni dalla prima sperimentazione in Italia di un reddito minimo a livello nazionale, torna a far discutere la possibilità che tale misura possa realmente portare il nostro Paese alla pari con i nostri vicini d’Oltralpe. L’esito delle ultime elezioni, infatti, ha riportato il tema al centro del dibattito politico. Ne ha parlato Beppe Grillo, anche se sul programma del Movimento 5 Stelle c’è scritto “sussidio di disoccupazione garantito”, lo ha inserito il leader del Pd, Pierluigi Bersani, negli otto punti programmatici parlando dell’ “introduzione di un reddito minimo d'inserimento” e lo chiedono con forza anche i ricercatori della rete Bin (basic income) Italia che hanno raccolto oltre 50 mila firme per promuovere una legge di iniziativa popolare. Tuttavia, un quinquennio di tentativi andati a vuoto d’introdurre un reddito minimo nel Belpaese, ha dimostrato soprattutto che, in Italia, portare avanti un progetto del genere, sia ben più complesso che inserirlo in un programma elettorale.

 

Raccolte oltre 50 mila firme. A rilanciare la necessità di un “reddito garantito” qualche mese prima delle elezioni è stata la rete di ricercatori di Bin Italia. Da giugno a dicembre dello scorso anno, infatti, sono state raccolte oltre 50 mila firme per sostenere una legge di iniziativa popolare per introdurre il sostegno. All’appello hanno risposto oltre 170 associazioni e diverse realtà sociali e politiche. La proposta prevede un modello di reddito garantito in linea con gli altri Paesi europei e tra i destinatari soggetti disoccupati, precariamente occupati o in cerca di prima occupazione. A loro, un sostegno di 7200 euro annui, pari a 600 euro mensili, misura che va rivalutata in base al numero dei componenti del nucleo familiare. Ai beneficiari, inoltre, saranno proposte eventuali offerte di impiego compatibili con l’esperienza e le competenze acquisite. Agli enti locali la facoltà di erogare un “reddito indiretto” favorendo prestazioni di beni e servizi.

 

Il “modello Trento” su scala nazionale. Gianfranco Cerea, su lavoce.info , avanza invece l’ipotesi di un “reddito di garanzia” all’italiana sul modello introdotto nel 2009 dalla provincia autonoma di Trento. Si tratta di un beneficio monetario alle famiglie in difficoltà, pari alla differenza tra l’effettiva condizione economica del nucleo e la soglia di povertà relativa. Un intervento di soli quattro mesi, rinnovabili dopo verifica e per non più di tre volte in due anni, valutando l’idoneità dei beneficiari non soltanto in base al reddito, ma anche attraverso patrimonio e consumi. Dal 2009 a dicembre 2012, sono poco più di 10 mila coloro che hanno beneficiato di questo tipo di sostegno nella provincia trentina, il 3,9 per cento della popolazione, di cui oltre il 60 per cento famiglie con minori. Un nucleo su quattro ha ricevuto il sostegno per una volta soltanto. Uno su cinque per due volte. Solo il 12 per cento per tre volte. A livello complessivo, il reddito di garanzia è costato 21,4 milioni di euro, dei quali 16,3 a favore delle famiglie con minori. Cosa accadrebbe se il modello Trento venisse applicato su tutto il territorio nazionale? Calcolando la spesa in base ai diversi contesti territoriali, secondo Cerea, si spenderebbe complessivamente 5,3 miliardi di euro: uno al Nord, 0,6 al Centro e 3,7 al Sud, di cui un miliardo andrebbe alla sola Sicilia. “Adottando alcuni accorgimenti e attivando la misura con una certa prudenza – spiega Cerea - i costi potrebbero effettivamente risultare contenuti e del tutto paragonabili a quanto lo Stato già sopporta per il sostegno agli anziani attraverso la pensione sociale”.

 

Il tallone d’Achille mostrato dalle sperimentazioni. Che il modello Trento possa funzionare anche in contesti dove precedenti esperienze hanno fallito, però, è da dimostrare. Di sperimentazioni in Italia, infatti, ne sono state realizzate tante senza clamorosi successi. Tuttavia, le diverse esperienze hanno messo il luce alcuni punti deboli: più che l’accesso alla misura, a preoccupare è la fuoriuscita dal novero dei beneficiari. Il primo tentativo su scala nazionale risale a fine anni ‘90, con l’allora governo Prodi e con Livia Turco come ministro della Solidarietà sociale.

 

In quella prima ed unica sperimentazione a livello nazionale di Reddito minimo d’inserimento furono coinvolti 39 comuni, ma dopo la caduta del governo, il progetto non è stato più implementato. Un’esperienza studiata dall’Istituto di ricerca sociale (Irs) che ne ha evidenziato pregi e limiti, come la responsabilizzazione da parte dei beneficiari, ma anche il rischio che possa essere intesa erroneamente come una risposta al problema della disoccupazione. La sperimentazione sui comuni ha permesso di raccogliere 55 mila richieste, di cui accolte 34.730. Tra i beneficiari, il contributo medio è stato di 728 mila di vecchie lire che ha richiesto un investimento complessivo di 426 miliardi di lire. Relativamente bassa, soprattutto al Sud, la quota di programmi di tipo occupazionale (14,9 per cento) collegato al sostegno, tra i quali figurano anche attività di orientamento al lavoro, di accompagnamento all’inserimento lavorativo e di incontro tra domanda e offerta. Secondo lo stesso Istituto, però, criticare l’Rmi per la scarsa produzione di occupazione stabile è pretestuoso perché non si tratta di un ammortizzatore sociale, ma una “misura di politica sociale contro la povertà” con altre finalità.

 

La palla alle regioni. L’esperienza più importante per durata, però, è stata quella campana , nonostante siano stati portati avanti progetti simili anche in Friuli-Venezia Giulia, Basilicata, Sardegna, nella provincia di Bolzano e nel Lazio, spesso bloccati dai turnover elettorali. Quattro anni pieni, di quello che in Campania è stato chiamato senza mezzi termini “Reddito di cittadinanza”, hanno messo in evidenza la mancanza di un sistema collaudato ed efficace di fuoriuscita dal sostegno. Partito ufficialmente nel 2005, il progetto ha raccolto oltre 139 mila domande, di cui 100 mila quelle accolte, ma solo in circa 18 mila hanno ricevuto un sostegno economico. Circa 77 i milioni di euro stanziati annualmente per il provvedimento con la legge finanziaria regionale. Il progetto prevedeva l’erogazione di 350 euro mensili per nucleo familiare con un reddito inferiore a 5 mila euro e tra i requisiti richiesti, la residenza da almeno 60 mesi, quindi uno strumento rivolto anche agli stranieri con permesso di soggiorno. Al termine dei primi tre anni di sperimentazione, però,l’allora dirigente del Settore assistenza sociale per la Regione Campania, Antonio Oddati, dichiarò a Redattore Sociale la propria preoccupazione: “Il provvedimento è diventato una forma di ‘dose’. Si prende questa indennità come si prende il metadone. L’insuccesso è dovuto alla mancanza di servizi e dell’effettivo reinserimento”.

Fonte: Redattore Sociale

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