di Alfonso Gianni 

Il Consiglio dei ministri ha approvato, in via preliminare e quindi non definitiva, il testo di legge proposto dal ministro Calderoli sull’autonomia differenziata. Non a caso ciò avviene alla vigilia di importanti elezioni regionali, in particolare quella lombarda, per permettere alla Lega di cantare vittoria.

In realtà il testo di legge presenta elementi di incostituzionalità (su cui torneremo) ed è assai approssimativo su molti aspetti. Persino Stefano Bonaccini, che si era unito ai presidenti di Lombardia e Veneto nel chiedere l’autonomia differenziata, ha bocciato il testo di Calderoli, giudicandolo irricevibile.

Ma sarebbe un grave errore sottovalutare il progetto governativo. Innanzitutto perché non nasce oggi. A metà degli anni novanta, quando la globalizzazione era nella sua fase montante, Kenichi Ohmae, che è stato senior partner della McKinsey & Company, nonché consulente molto apprezzato di governi e multinazionali - un vero alto funzionario del capitale - scriveva che gli Stati-nazione erano oramai diventati “unità di business artificiose, o addirittura inammissibili, in una economia globale”. Al posto loro si ergevano i nuovi “Stati-regione” - di cui il Kansai attorno ad Osaka e la Catalogna erano alcuni degli esempi portati. In base a questa analisi si domandava che senso avesse “pensare all’Italia come un’entità economica coerente all’interno della Ue”, quando “esistono invece un Nord industriale e un Sud rurale, che differiscono profondamente in ciò che sono in grado di dare e in ciò di cui hanno necessità”.

La via indicata non poteva essere dunque che la fine dell’illusione cartografica, l’abbattimento (per il capitale e i suoi agenti) dei confini diventati virtuali, la ricerca dell’unione tra regioni forti (“le aree omogenee di business”) con il corollario dell’abbandono al loro misero destino di quelle deboli.

Infatti, più o meno nello stesso periodo, quello che anni dopo sarebbe diventato l’arcigno ministro delle finanze del governo tedesco, Wolfgang Schauble, lanciò, assieme a Karl Lamers, il progetto di un’Europa limitata a un nucleo forte centrale, la ‘Kerneuropa’, escludendo i paesi e le economie periferiche. Un progetto che ogni tanto ritorna, come un rigurgito, nella veste dell’Europa a due velocità.

Le crisi che si sono succedute in questi anni, quella economico-finanziaria e quella pandemica, hanno provocato una frammentazione delle catene di approvvigionamento e di creazione del valore. Ma questo non pone fine alla globalizzazione, anzi ne esalta gli aspetti che vedono rinforzarsi il legame tra aree geograficamente e culturalmente più vicine. Se rimaniamo al quadrante italiano, anche i recenti dati dell’Agenzia per la coesione territoriale, confermati nella sostanza da analoghe ricerche di Bankitalia, dimostrano l’aggravarsi delle diseguaglianze, che peggioreranno nel 2023. Per fare solo qualche esempio: la spesa pubblica pro capite è pari a poco meno di 19mila euro in Lombardia, viaggia sui 16mila in Veneto, mentre si ferma a poco più di 14mila in Sicilia, in Calabria a 15mila, in Campania a 13.700 euro. Ben si comprende la reazione di 51 sindaci del Sud, di diverso schieramento politico, che si sono appellati al capo dello Stato per fermare il progetto Calderoli.

La “secessione dei ricchi” non è quindi uno slogan polemico, ma l’esatta definizione dei processi economici che sottendono al progetto di autonomia differenziata, che peraltro significherebbe anche la fine di fatto del contratto collettivo nazionale di lavoro.

Un altro errore sarebbe quello di concentrare tutta l’attenzione sul disegno di legge Calderoli. Anche se questo non ci fosse, o venisse modificato o addirittura cancellato, l’autonomia differenziata si potrebbe fare lo stesso attraverso l’intesa fra il governo e le singole regioni interessate, presentando al Parlamento una legge preconfezionata da ratificare senza entrare nel merito delle norme contenute. Infatti, la sciagurata modifica costituzionale del 2001 lo prevede.

Per bloccare il progetto di autonomia differenziata bisogna quindi cambiare buona parte del Titolo V della Costituzione, in particolare agli articoli 116 e 117. È quanto si propone di fare la proposta di legge di iniziativa popolare di revisione costituzionale, elaborata da Massimo Villone con la collaborazione e l’adesione di oltre 120 giuristi, meridionalisti, docenti e attivisti sociali, oltre che dei sindacati Cgil e Uil della scuola. A cui si è aggiunta l’adesione dell’Anpi e dell’Arci.

A differenza del passato il Senato ha l’obbligo di discutere le proposte di legge popolari, che quindi non finiscono più nei cassetti. Servono almeno 50mila firme. La raccolta è in corso. Anche per via digitale, con lo Spid. Per conoscere e firmare la proposta di legge: www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it

Fonte: sinistrasindacale.it

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