Precari per sempre. L’amara libertà di essere disuguali (Seconda parte)
Nel suo ultimo libro - Il prezzo delle disuguaglianza, Einaudi, pp. 473, euro 23 - Joseph Stiglitz denuncia la crescita del reddito dei dirigenti di impresa e quello del lavoro dipendente. Il panorama sociale al di là dell'Atlantico vede una minoranza di super ricchi e una numeroso esercito costituito da ceto medio impoverito e working poor.
Se continuano così, gli Stati Uniti non solo sono destinati a un lento declino economico, ma vedranno lo sbriciolamento delle sue stesse fondamenta democratiche. Da qui, la sua valorizzazione di Occupy Wall Street, cioè un movimento che ha come collante proprio la denuncia della polarità esistente tra il 99 per cento della popolazione impoverita e il restante un per cento. La via d'uscita proposta è il ritorno a politiche redistributive del reddito, a un limitato intervento dello Stato in economia per lo sviluppo delle infrastrutture necessarie a rendere competitive imprese sempre più globali, investimenti nella formazione e politiche volte a garantire una diffusa assistenza sanitaria.
Al di qua dell'Atlantico, gli fa idealmente eco il pamphlet di Zygmunt Barman che denuncia la falsità della retorica dominante seconda la quale La ricchezza di pochi avvantaggia tutti (Laterza, pp. 100, euro 9).
A differenza di quella svolta da Stiglitz, ci troviamo però di fronte a un'analisi che lega disuguaglianze e precarietà, dove il secondo termine indica l'esito di quel dissolvimento delle istituzioni della modernità che Barman ha più volte posto come esito dell'avvento della società liquida. Quello che però né Stiglitz né Bauman affrontano è il venir meno del nesso tra cittadinanza e lavoro. La precarietà va considerata come la condizione propedeutica affinché le imprese possano attingere a un bacino di expertise in un mercato del lavoro che non prevede più la stabilità nel rapporto professionale.
di Benedetto Vecchi
Tratto da Il manifesto del 9 aprile 2013
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