di Roberto Romano

Gli economisti, spesso, commettono ingenuità incomprensibili, ma quelli intelligenti si accorgono dell’errore e lo correggono immediatamente. Chiariamo i termini “politica fiscale” e “politica economica”. La politica fiscale riguarda le decisioni del governo in merito alle entrate e alle spese fiscali; da un lato il governo raccoglie denaro (imposte sul reddito, sul valore aggiunto, sulle transazioni, ecc.), coerenti con gli obbiettivi di politica economica, dall’altro lato spende le entrate fiscali per infrastrutture, istruzione, sanità, assistenza sociale, beni di merito. Scusandomi della banalità, ricordo che l’art. 3 della Costituzione rammenta che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale”, mentre l’art. 53 sottolinea che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche”. Declinare e/o ricordare come nelle favole che tanto tempo fa avevamo tante aliquote e scaglioni fiscali è un modo elegante per oscurare il ruolo della spesa pubblica e, peggio ancora, sostenere indirettamente che le tasse sono sempre troppo alte. Il problema fiscale europeo e nazionale è la base imponibile troppo stretta. Sono anche costretto a ricordare che allo Stato servirebbero maggiori entrate fiscali pari a non meno di 30 mld di euro stabili, almeno per come funziona ora lo Stato nazionale. La politica economica è un termine più ampio e contempla tutte le leve di governo.

Al netto della non banale discussione circa la politica monetaria, chissà perché in troppi si scordano il tema, la politica economica si occupa di lavoro, struttura dell’economia, investimenti e ricerca & sviluppo, politiche industriali, le quali sono affiancate da politiche settoriali. Questi temi sono delicatissimi e non possiamo diventare degli idraulici: aumentiamo gli investimenti e l’economia ripartirà. Peccato che ogni euro di investimento realizzato dalle imprese italiane, spesso, si traduce in importazione di beni capitali dall’estero: più investiamo e più arricchiamo gli altri paesi (Industria 4.0 insegna). 
Lo Stato necessità di tante entrate fiscali e di una adeguata spesa pubblica per correggere le disfunzioni del mercato e indirizzare il sistema economico; dovrebbe migliore l’allocazione delle risorse e ripartirle tra privato e pubblico; dovrebbe assicurare che la crescita del Paese sia in linea con la crescita dell’innovazione tecnologica e la demografia. Inoltre, lo Stato dovrebbe realizzare una corretta distribuzione del reddito per evitare che lo stesso reddito e ricchezza si concentri nelle mani di gruppi sociali ristretti. Questo ultimo aspetto è importante, ma è bene ricordare che questo intervento deve realizzarsi nel mercato e non via tasse che agiscono sempre a margine del reddito realizzato nel mercato.
Nonostante i tanti errori di troppi economisti, il mainstream è molto ampio, la sinistra riformista rivoluzionaria (Riccardo Lombardi) dovrebbe pur farsi delle domande di senso circa le sfide da affrontare. Nessun paese europeo può misurarsi con l’economia statunitense e cinese; troppo piccoli. Il patto europeo è brutto, ma dall’Europa si deve pur passare senza lisciare il pelo a chi vuole uscire dall’euro; c’è poi il drammatico tema demografico. Si deve affrontare ora, diversamente scompare la base (infrastruttura) dell’Italia, ma direi di tutti i paesi a capitalismo maturo. Delineate le sfide di senso, dobbiamo affrontare seriamente i nodi di struttura dell’economia nazionale. 

Spesa pubblica: l’attuale allocazione della spesa pubblica, 1.150 mld, non è efficace e spesso le nuove misure si aggiungono alle attuali missioni senza una vera analisi di costi-benefici; sarebbe il caso di riscrivere la matrice della spesa pubblica definendo bene chi fa che cosa.
Entrate fiscali: innanzitutto è necessario coordinare entrate e spesa pubblica, nella consapevolezza che il vero problema è l’allargamento della base imponibile.
Pubblica Amministrazione: servono non meno di 600.000 nuovi tecnici che possano far funzionare meglio la macchina pubblica (servono maggiori entrate fiscali). Per capirci, con le risorse destinate al taglio dei contributi sarebbe possibile finanziare l’assunzione di nuovi dipendenti pubblici. Si tratta di scegliere che cosa privilegiare.
Politica industriale: la sofferenza dell’industria italiana è nota, come la sua despecializzazione. Dobbiamo cambiare il motore della macchina senza fermarla e per fare questo dobbiamo industrializzare quel poco (tanto) di ricerca pubblica per modificare la specializzazione produttiva del Paese, ormai piegata al solo costo degli input; è una sfida enorme perché non basta fare più investimenti. 
Contratti nazionali del lavoro: se vogliamo modificare la distribuzione di reddito tra capitale e lavoro è necessario riscrivere la matrice dei contratti nazionali (CNNL), avvicinandoli sempre di più alla classificazione Istat dell’attività economica. Aumenterebbe il numero dei lavoratori coinvolti e quindi il potere contrattuale.

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