Più volte si è criticato il jobs-act. E più volte si sono evidenziati i limiti di una legge che tende ancora di più a rendere il lavoro precario e precarie le condizioni dei lavoratori.

La vicenda dei 4 operai di una fabbrica metalmeccanica lo dimostra in modo inequivocabile: licenziati per il solo fatto di informarsi del loro futuro, delle loro prospettive all’interno della fabbrica stessa, colpevoli di essersi rivolti al sindacato.

E quest’ultimo aspetto testimonia quanto siamo lontani dal concetto di democrazia dei nostri padri costituenti.

Se non vengono rispettati i diritti inalienabili delle persone prima e dei lavoratori come soggetto sociale poi, se non viene coniugato il concetto di uguaglianza con quello di democrazia, sia in termini culturali che economici, noi viviamo in una società dove è egemone il concetto della competizione, limitando di fatto la possibilità per i cittadini meno abbienti di emanciparsi.

La nostra carta Costituzionale afferma che è compito dello stato rimuovere le cause che impediscono la soddisfazione dei propri bisogni ad ogni cittadino. Di fatto oggi questo concetto è stato rimosso, cancellato completamente dall’agire quotidiano sia nel mondo del lavoro che in quello politico.

E non è che dando la facoltà di licenziare alle aziende si libera il cosiddetto mercato del lavoro e si crea più occupazione, ormai questo concetto è inaccettabile e irripetibile, lontano dalla realtà.

 
Il lavoro manca per cause strutturale e una di queste non è il diritto al lavoro, ma la parte del reddito globale destinata ai salari, che provoca crisi di consumi e recessione. È la precarietà e l’innalzamento dell’età pensionabile, è la delocalizzazione della produzione industriale là dove il costo del lavoro è più basso.

Ed è anche dovuta ad una recessione economica dopo una fase espansionistica avvenuta nei successivi 30 anni dall’ultimo conflitto mondiale.

 
Non possiamo risolvere questo problema con la finanziarizzazione dell’economia, non possiamo far dipendere il nostro futuro da un predominio del sistema finanziario, sostenendo la domanda attraverso crediti facili che alla fine restano insoluti.
 

Ed è intollerabile l’arroganza con la quale vengono gestiti i rapporti di lavoro.

A Perugia, in Umbria, in Italia, servono investimenti per far ripartire l’occupazione e l’economia, e là, dove la produzione industriale continua a produrre e creare margini, il reddito va ridistribuito fra proprietà e lavoratori e non impiegato per mere manovre finanziarie.

Senza diritti non c’è democrazia, senza uguaglianza non c’è libertà.

Rivendichiamo, quindi, una società più giusta e solidale e manifestiamo solidarietà ai quatto operai ingiustamente licenziati.

Attilio Gambacorta,
coordinatore Associazione politico-culturale Umbrialeft

 

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