di Fauso Bertinotti

Primo maggio 2021. Davvero un 1 maggio mesto, e non solo per la pandemia che ostacola i rapporti sociali. È lo stato del lavoro a rendere impossibile la festa e a costringere a una dura riflessione. Lo testimoniano irrevocabilmente le parole a cui qui ricorriamo. Non sono le parole di un sindacalista, ma della direttora centrale dell’Istituto di statistica, l’Istat, Linda Laura Sabbadini, che ha scritto: «Primo maggio del lavoro, che non c’è. Del lavoro perduto. Un primo maggio triste. Per molti, doloroso».

I nuovi dati parlano di una catastrofe, proprio la catastrofe del lavoro. Cominciamo dall’occupazione. Il lavoro perduto durante la pandemia è impressionante. 900mila sono coloro che hanno perso il posto di lavoro e tra loro ad essere colpiti in particolare sono state le donne e i giovani. Se si pensa che il manifatturiero ha sostanzialmente tenuto, che c’è stato il blocco dei licenziamenti, che si è fatto ricorso ampiamente alla cassa integrazione guadagni, si può capire qual è stato il colpo inferto ai lavoratori, in particolare dei servizi. Hanno perso il lavoro quasi il 10% di tutti i dipendenti a tempo determinato e quasi il 7% dei lavoratori indipendenti. La disoccupazione di massa diventa, oltre che una drammatica deprivazione di dignità delle persone, una leva per la destrutturazione del mercato del lavoro e della compagine lavorativa. In pochi anni, i giovani tra i 25 e i 34 anni hanno perso 10 punti nel tasso di occupazione. Oggi, quasi il 40% dei giovani non ha lavoro.

Nel Paese che ha scritto nel primo articolo della sua Costituzione che: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”, l’atto di accusa contenuto in questi dati è inesorabile. La Costituzione è tradita. Le conseguenze negative della disoccupazione investono anche la qualità dei rapporti sociali. I migranti, e con loro tutti gli altri invisibili, sono stati investiti da un ulteriore sradicamento e, ancora una volta, in essi più le donne che sono soprattutto impiegate nei servizi domestici e nella ristorazione. Il colpo inferto dalla perdita di lavoro aggrava gli squilibri territoriali e, a farne le spese più di altri, è il Sud. Piove sul bagnato e il peggio è che continua a piovere. Nel primo trimestre di quest’anno si sono persi altri 254mila occupati, mentre sono salite del 35% in un anno le persone in cerca di lavoro. La distinzione tra garantiti e non garantiti, in genere sottolineata per mettere in discussione anche i pochi restanti diritti dei lavoratori, semmai è esistita, non resiste all’urto della crisi. Un lavoratore impegnato a fare il facchino per più di dodici anni ora racconta: «In trecento abbiamo perso il lavoro che avevamo nell’hub di Piacenza, così da un giorno all’altro. Alle 6 del mattino del 29 marzo, senza preavviso, siamo stati licenziati». Lui e i suoi compagni della Fedex e Tnt si sono trovati chiusi i cancelli davanti. Fine delle trasmissioni.

Intanto, sono aumentati i lavoratori con retribuzione considerati anche statisticamente insufficienti. Secondo una recente indagine Censis, essi sono 1 milione e mezzo. Nell’ultimo decennio, sono aumentati dell’84%. Lo chiamano il working poor. Se salta il muro di protezione del lavoro detto garantito, non vengono per niente meno le divisioni, le scomposizioni, la frammentazione del mondo del lavoro che, anzi, si accentuano ulteriormente in maniera drammatica. Ci sono i lavori scarsamente garantiti, quelli che lo sono ancora di meno e quelli che non lo sono affatto. Nel lavoro non alberga più solo lo sfruttamento, ma anche la spoliazione. Da anni, sappiamo che sono riemerse persino nuove forme di schiavitù e che nella pandemia si sono allargate e accentuate. Il ricatto del rischio di precipitare nella miseria, di perdere tutto, di non avere più niente né per sé né per i propri cari spinge ad accettare anche lavori degradanti, lavori senza diritti, per un soldo che non è una retribuzione.

Certo, nel mondo del lavoro c’è anche altro, c’è il lavoro alto, sofisticato, internazionalizzato. C’è il lavoro a distanza, di cui pure bisognerebbe studiare di più, con i diretti interessati, i nuovi problemi che esso pone. C’è anche il lavoro ricco di chance, ma è per pochi, e la disuguaglianza non è una virtù, neanche nel mondo dell’algoritmo e dell’intelligenza artificiale. La polarizzazione del lavoro in corso produce molti guasti sociali e ne contiene molti altri per il futuro. Il primo di essi riguarda il destino di un’intera generazione. La realtà del lavoro che l’ultimo 1 maggio consegna a chi governa il Paese è “il problema”, non uno tra i tanti.

Inutile ricorrere ai grandi casi della storia moderna in cui è stato affrontato un problema analogo, casi che sono diventati di scuola, casi nei quali una politica forte è rinata proprio al cospetto della crisi e nel confronto con la disoccupazione di massa. Sono a volte anche citati nel dibattito corrente questi casi, ma come a dire che ce la possiamo fare anche questa volta, cioè vengono deprivati di ogni concreta attualizzazione. La ragione mi pare evidente, in tutti questi casi, c’è stata una rottura, una svolta radicale rispetto alle politiche precedenti e sempre quelle hanno messo in discussione il rapporto tra lo Stato e il mercato, tra il pubblico e il privato e hanno configurato un nuovo ruolo dello Stato nell’economia e nella creazione di nuovi posti di lavoro. Purtroppo, questa volta di queste scelte non se ne vede traccia. La cosa è tanto più sorprendente perché, mai come in questi tempi, i poteri pubblici sono impegnati a ridefinire nuove politiche espansive di spesa, dopo il disastro prodotto dalle precedenti politiche di austerity. Pure rimuovendo i sospetti derivanti dalla constatazione che le une e le altre sono state concepite sostanzialmente dalle stesse classi dirigenti, non si può non vedere il punto debole delle nuove strategie, del Recovery plan e delle riforme di razionalizzazione richieste in suo sostegno.

È un buco nero che riguarda nella stessa misura anche il Pnrr del governo Draghi. In quel buco nero sta proprio il lavoro, sul quale manca un’idea di riforma e di prefigurazione dei nuovi assetti che si dovrebbe raggiungere per realizzare una piena e buona occupazione. L’idea che si ricava dal Pnrr è invece quella derivata da una già fallita strategia, quella enunciata per correggere le diseguaglianze nelle politiche dei redditi: la teoria dello sgocciolamento, ossia la crescita delle ricchezze di pochi avrebbe dovuto sgocciolare fino ad arrivare ai molti poveri. Il risultato è stato la crescita della diseguaglianza. Qui, pare di capire che, secondo il governo, gli investimenti previsti nell’innovazione del digitale e dell’ecologico e quelli previsti per le grandi opere dovrebbero determinare l’aumento dell’occupazione, mentre parallelamente i centri dell’impiego dovrebbero favorirla attraverso un più oliato rapporto tra offerta e domanda sul mercato del lavoro.

Quest’ultima operazione, peraltro, non può essere mai una vera leva per l’occupazione, può lavorare solo ai margini dei processi, anche utilmente, ma il centro non lo può raggiungere mai. Se il lavoro manca, come possibilità di occupazione per i grandi numeri, quell’attività è costretta ai margini dei processi. Resta la ripresa economica, ma già si annuncia una ripresa senza lavoro. Per non parlare del rapporto tra il balzo previsto con le nuove tecnologie e la quantità di lavoro necessaria, rapporto che possiamo considerare quantomeno molto problematico. Cercare di trattenerlo per la coda, non ferma la carica del toro, che va invece preso per le corna. La perdita di lavoro e la perdita di potere e di diritti da parte dei lavoratori sono iscritte strutturalmente in questo modello economico e sociale. Per affrontarle, ci vorrebbe almeno che la politica riconquistasse una sua autonomia progettuale e di azione, ci vorrebbe un nuovo e qualificato intervento del pubblico e dello Stato per generare indirettamente e per creare direttamente buon lavoro, e per garantire a tutte e a tutti, con o senza lavoro, una vita dignitosa.

Sia indagine del presente, che la memoria delle buone storie del passato, che lo sguardo indagatore del futuro, conducono all’assoluta necessità di un punto di svolta rispetto alle politiche in atto e a quelle previste dal Pnrr e delle riforme razionalizzatrici. Questo punto di svolta può prendere la forma di un piano del lavoro, che si dovrebbe a sua volta appoggiare a un programma di riforme sociali progressive. Esse peraltro guadagnano ogni giorno una loro evidenza di fronte all’aggravarsi della crisi. Esse, per esempio, vanno da un nuovo statuto per tutti i lavoratori e le lavoratrici, ovunque collocati, a un salario minimo generalizzato per tutti gli esclusi dai contratti, alle riduzioni dell’orario di lavoro, a una forte qualificazione del reddito di cittadinanza.

Ma la leva per portarle all’ordine del giorno non può che essere il lancio di un piano del lavoro. Esso dovrebbe dar luogo a una nuova stagione di democrazia partecipata, del coinvolgimento dei soggetti interessati, vecchi e nuovi protagonisti, dentro e fuori i confini legali, nei territori come nei luoghi cruciali delle catene del valore, attraverso la partecipazione di tutte le forme sindacali di associazione di iniziativa popolare, con tutti i luoghi di conoscenza ufficiali e sperimentali. Parlando del piano del lavoro della Cgil di Di Vittorio, Vittorio Foa sottolineava che il piano era “una proposta molto importante di autonomia operaia e popolare”, sia sul terreno delle priorità che delle forme di lotta.

Ancora oggi, ci sarebbe bisogno di una proposta che autonomamente nascesse e vivesse dal basso nella società. Ma questo non fa venir meno la responsabilità politica di una scelta dall’alto, una scelta che proprio la crisi rende indispensabile. Il governo per primo dovrebbe assumersi quella di colmare il suo attuale buco nero, la politica attiva e di riforma sociale del lavoro, e dovrebbe farlo con una proposta che si può chiamare il Piano del lavoro.

Fonte: il Riformista

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