Elio Clero Bertoldi

 

Arrivarono in piena notte. Passando lungo il greto del torrente Niccone e attraverso i campi. Diretti verso Dogana, dopo un'ora di marcia giunsero a Penetola. Nessuno nel cascinale del podere degli Gnoni Mavarelli, che abitavano più in alto, nel castello di Montalto, si accorse di nulla. A quell'ora dormivano tutti profondamente. Durante il giorno era piovuto e per alcuni, le famiglie degli sfollati, quella si profilava come la prima notte trascorsa al coperto. Nei giorni, nelle settimane precedenti si sdraiavano all'addiaccio, alla macchia, nei boschi, nel timore di retate. Qualche straccio per coprirsi dall'umidità della notte, anche se ormai era entrata l'estate. Accovacciati sotto gli alberi, tra i cespugli. Ma gli Avorio e i Luchetti, i mezzadri, imparentati tra di loro, avevano deciso fosse tempo, il giorno dopo - era la notte tra il 27 e il 28 giugno, la vigilia di San Pietro e Paolo - di mietere. Le messi apparivano bionde e il sole di luglio avrebbe corso il rischio di bruciarle. Servivano braccia forti, riposate per falciare, piegati in avanti, tra le spighe. Anche per questo i contadini non ebbero alcuna remora ad ospitare quelle sfortunate famiglie, che chiedevano ospitalità. Aprirono le porte delle loro povere case. Tra l'altro qualcuno degli sfollati avrebbe potuto prestare l'opera nel lavoro dei campi. E di braccia in campagna c'è sempre fame. Il destino volle che il grano, in quel giugno del 1944, non fosse mietuto. E che invece di tanti covoni sulla terra sarebbero rimasti dodici corpi, sfigurati, massacrati, immersi in un lago di sangue.

 

I tedeschi - diciotto soldati del 315° battaglione genieri di montagna della Wehrmacht - piombarono sui modesti cascinali, dalle pareti sbrecciate, intorno alla mezzanotte. Piazzarono, all'ordine del sottotenente Burger, le mitragliatrici tutto intorno e poi bussarono battendo con violenza, col calcio dei fucili, agli usci. Tutti furono fatti prigionieri. Gli Avorio, i Luchetti, i Nencioni, i Forni, spaventati e assonnati, furono prima raccolti sull'aia, poi divisi di nuovo: i mezzadri nel cascinale, gli sfollati (i Nencioni e i Forni) nell'essiccatoio. I genieri tedeschi sparsero, a mucchi, tutto intorno ai due stabili, la paglia e le appiccarono il fuoco. Una tecnica di guerra, già tante volte utilizzata non solo in Italia ma anche in Russia, contro innocenti, povere e inermi famiglie di contadini. Un sistema crudele per fare terra bruciata, mentre i tedeschi si ritiravano dalla linea Gustav alla linea Gotica, sotto la pressione, continua, pressante e vincente, degli Alleati.

 

Renato Avorio, 14 anni, ebbe la cattiva idea di affacciarsi alla finestra. Gesto per lui naturale. Aveva sentito muggire la mucca, vera ricchezza della famiglia e, per di più, nata lo stesso giorno in cui lui era venuto alla luce. Ci teneva a quella bestia, il ragazzo. Aveva un forte legame affettivo con l'animale. L'adolescente fece appena in tempo a gridare: "Ci portano via la mucca!", che le parole gli si strozzarono in bocca: un soldato gli lanciò contro, attraverso la finestra, una granata, che gli staccò il braccio sinistro. Rumore assordante, fumo intenso, dolore lancinante, grida disperate e gemiti sofferti in quei pochi metri quadrati. L'aria acre, irrespirabile per l’odore dell’esplosivo, per il fumo, per gli odori della sottostante stalla. La bomba, infatti, aveva aperto un buco sul pavimento, proprio sopra il ricovero degli animali e i più agili dei Luchetti, tra cui Guido, 18 anni, si calarono di sotto, nella speranza di trovare una via di scampo. La mitragliatrice troncò di netto le loro vite. Mario Avorio, 40 anni, il capofamiglia e Agata Orsini, 34 anni, la moglie, il corpo maciullato dalle schegge della bomba, strinsero a sé i figli più piccoli, Giuseppe, 4 anni e Maria, 6 anni, trattenendoli tra le gambe. Travolti dal panico, tra il fumo e il sangue, le invocazioni dei più piccoli, le preghiere e le bestemmie degli adulti, la madre continuava ad accarezzare la fronte di Renato, gli occhi sbarrati dal dolore e il sangue che continuava a uscire copioso dalla devastante ferita. Morì dissanguato, il ragazzo e probabilmente fece in tempo a sentire anche il crepitìo delle armi che freddarono i suoi fratelli minori, Antonio di 11 anni e Carlo di 8, i quali, nonostante i consigli e le preghiere dei genitori a rimanere distesi sul pavimento, siccome facevano fatica a respirare, si slanciarono giù per le scale, in un disperato tentativo di fuga. I loro corpi rimasero in fondo alle scale, uno accanto all'altro, tra il primo e il secondo gradino.

 

La strage, intanto, si consumava anche nell'essiccatoio. Dove tutti morirono sparati, i Forni e i Nencioni. Solo Giovanna Nencioni, 5 anni, riuscì a sopravvivere spinta dai suoi verso un carro che la riparò o forse risparmiata da una improvvisa resipiscenza dei soldati, già evidentemente sazi di quell'orrore di grida disperate, di sangue, di morte.

 

Tre ore durò quella orribile, sanguinosa mattanza. Albeggiava quando i soldati tedeschi lasciarono il podere, col fumo che usciva dalle finestre e l'odore della paglia bruciata. A terra i corpi di dodici, inermi, civili. Tra di loro quello del padre di Giovanna, Costanzo Nencioni, sindacalista, fuggito da Milano, ironia della sorte, per sottrarsi alle retate delle squadracce fasciste e delle SS.

 

I sopravvissuti si trascinarono fuori, carponi, le carni lacerate dalle schegge, la gola riarsa dal fumo. Illesi i bambini, Giuseppe e Maria Avorio e Giovanna Nencioni. I due adulti sarebbero morti se non fossero stati soccorsi, sembra incredibile, proprio da un paio di tedeschi. I quali, la mattina del 29 giugno, intorno alle 10, li caricarono su una camionetta scoperta, che da Niccone di Umbertide, facile bersaglio dei mortai e dei raid aerei alleati (oltre che dei loro comandi superiori), in un viaggio di oltre due ore tra strade sterrate di campagna e li trasportarono a Città di Castello. I due "crucchi", anche loro feriti, scaricarono i coniugi davanti al seminario di Città di Castello, con poche parole ("banditen", spiegarono indicando la coppia di contadini italiani) dove monsignor Beniamino Schivo - l'ospedale era stato bombardato - aveva organizzato una sorta di ambulatorio.

 

Pian piano si ripresero e guarirono i coniugi di Penetola. Il capofamiglia morì, ancora giovane, sedici anni più tardi; la signora Agata a 94 anni, appena pochi anni fa. E vivi sono ancora quelli che allora erano bimbetti: Giuseppe, Maria e Giovanna.

 

Perché i due ignoti soldati tedeschi salvarono i coniugi contadini? La signora Agata, nei giorni precedenti alla strage, ogni mattina portava una tazza di latte, appena munto dalla mucca, ad un ragazzo tedesco di guardia al ponticello vicino casa. E il giovane militare, poco più che maggiorenne, la chiamava, ringraziandola, "mutter" (mamma). Forse i due salvatori erano suoi amici e avevano affrontato, su richiesta del commilitone, grato per le cortesie ricevute, quel viaggio tra Niccone e Città di Castello, sfidando il plotone di esecuzione. O forse i due avevano fatto parte del commando assassino e, per placarsi la coscienza, dopo aver versato tanto sangue o perché per scelta contrari alla violenza, anche se non avevano avuto la forza e il coraggio di ribellarsi agli ordini, avevano cercato di salvare almeno quelle due vite innocenti. Chissà.

 

Un mistero. Come mai nessuno è riuscito a fornire una spiegazione convincente del perché di quella strage di inermi. L'unica spiegazione logica è legata ad una possibile delazione che aveva come obiettivo primario Costanzo Nencioni, l'unico ad avere un passato di antifascista militante, per la sua attività sindacale nel capoluogo lombardo. Ma per un solo uomo tutto quel sangue, tutti quei morti, bambini compresi?

 

Passata la guerra a ricordare i tre figli morti (Renato, Antonio e Carlo) Giuseppe Avorio piantò tre noci ai margini dell'aia. Che ancora sono lì, mentre il vecchio cascinale, testimone muto della crudeltà e della ferocia dei conflitti, è diventato un monumento e un monito all'assurdità della guerra e dei crimini contro l'uomo. Anche se nessuno, almeno sino ad oggi, ha perseguito i responsabili della strage.

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