IL PARADOSSO DEGLI "OCCUPABILI"

di Maristella Cacciapaglia*

Con il governo Meloni, il Reddito di Cittadinanza è tornato al centro delle polemiche. O forse, da quel centro, il Reddito di Cittadinanza non è mai stato lontano. Rivolto ai margini della società, si tratta fondamentalmente di una politica attiva del lavoro, che promuove l’occupazione e l’inserimento lavorativo, tant’è che per alcuni sarebbe il caso di rinominarlo «Bino» – basic income in name only. Eppure, non solo per un governo di destra, il Reddito di Cittadinanza è un «reddito da divano», da abolire quantomeno per gli «occupabili».

Working poors

Oggi, però, essere occupabili e persino occupati non porta necessariamente lontano dall’essere poveri. Come scriveva Chiara Saraceno già tempo fa, il lavoro non basta. Addirittura, più che «sdraiati sul divano», molti beneficiari del Reddito di Cittadinanza sono già lavoratori poveri, con biografie professionali che si distinguono per discontinuità o stagionalità, irregolarità o informalità. Questo è tanto più vero nei territori ai margini, e dunque per chi vive in una condizione di «doppia marginalità», dove le storie di vita riflettono l’aridità del mercato del lavoro, così come le sue storture. 

Nel mezzogiorno d’Italia, ad esempio, a richiedere il Reddito di Cittadinanza è stata un’avvocatessa sposata con un barista part-time, con un figlio piccolo, che non riesce né ad avere un contratto di lavoro dignitoso nello studio legale dove lavora ormai da tempo, né a conciliare vita e lavoro. Oppure è stato un padre di famiglia che, dopo aver perso il lavoro a tempo indeterminato in seguito ad una delle varie crisi del capitalismo contemporaneo, trova solamente lavori informali – nelle migliori delle ipotesi, considerata l’età. 

Le storie dei beneficiari del Reddito di Cittadinanza, in effetti, sono tante, anche se non vengono prese granchè in considerazione nel dibattito pubblico. Le loro sono anche le storie di chi lavora stagionalmente, di chi ha un contratto part-time «solo sulla carta», di chi un contratto l’ha visto solamente dopo aver cominciato a lavorare oppure di chi non l’ha visto mai.

Per di più, tanto con l’espressione «occupabili», quanto con il paradigma afferente alle politiche attive del lavoro, ci si riferisce al lavoro sempre e solo in senso economico. Prendersi cura della casa e della famiglia, supportare l’organizzazione di un festival cinematografico in una piazza abbandonata, manifestare per l’ambiente o fare volontariato per la parrocchia non rientra in tale concettualizzazione. Nonostante siano tanti i beneficiari del Reddito di Cittadinanza impegnati in attività del genere, solo il genitore di un bambino fino a tre anni merita di beneficiarne senza formarsi per cercare un lavoro o senza «dare qualcosa in cambio» in questo senso. Men che meno, queste loro attività vengono equiparate a quelle socialmente utili previste dal «Patto di Utilità Collettiva», da firmare insieme a quello per il lavoro o per il sociale, pena la decadenza del beneficio.

Una cittadinanza economica

La povertà sembra così una colpa da espiare, e il welfare qualcosa da meritare. Del resto, le politiche attive del lavoro per le fasce più vulnerabili della popolazione, come il Reddito di Cittadinanza, incidono da tempo sul volto del welfare così come lo conosciamo, con il pericolo ormai tangibile di rendere la «cittadinanza sociale» del secolo scorso una «cittadinanza economica». Più precisamente, con la rottura del compromesso sociale dell’epoca industriale fordista e il superamento del pensiero keynesiano a favore di quello neoliberale, le politiche attive del lavoro sono diventate lo strumento ideale dei policy makers – bi-partisan – per rincorrere l’equilibrio tra flessibilità e sicurezza sociale, ovvero tra produttività e protezione sociale, in un sistema economico che è sempre più dinamico e globale, ma anche più fragile. Per questo motivo, le politiche del lavoro si sono legate a quelle del welfare, in un modo più o meno indissolubile, a tal punto che, per gli studiosi più critici, il Welfare State si è trasformato in un Workfare State. 

Nelle parole di Jamie Peck, laddove il welfare è sinonimo di diritto universale alla protezione sociale e cambia da esigenza a esigenza, il workfare è sinonimo di coercizione e si basa sulle esigenze del mercato. Laddove il welfare implica un sostegno passivo al reddito, il workfare implica un’inclusione attiva nel mercato del lavoro. E, con riferimento alla questione del lavoro in senso economico, non si tratta solamente di incidere sul tasso di disoccupazione, ma anche su quello di attività economica.

Un paradigma che, inoltre, si fonda sull’individualizzazione della disoccupazione e della povertà, tralasciando le responsabilità strutturali e legittimando la colpevolizzazione di quanti si trovano ai margini del mercato del lavoro e della società. Gli stereotipi sui beneficiari del Reddito di Cittadinanza supportano tutto ciò, benché queste persone siano tutt’altro che divanisti o «poveri in vacanza». 

Ancora a tal proposito, si potrebbe chiamare in causa la scelta poco sobria di una carta gialla per i pagamenti. Di fatto, non è solamente con il governo Meloni che il sistema italiano marcia nella direzione del Workfare State. 

Il paradosso da disvelare

D’altra parte, politiche sociali ancora più coercitive, avare o privatizzate sono nientedimeno in linea con un Centaur State, che è particolarmente forte con i deboli (e debole con i forti), ma che continua a poggiarsi su un paradosso importante: il lavoro, sempre più slegato dai diritti, diventa la chiave per accedere ai diritti stessi e, persino, quella per cambiare le traiettorie delle vite ai margini. Il pericolo, anch’esso tangibile, è quello di non essere più poveri con diritti, bensì lavoratori poveri senza diritti.

Questo paradosso è diventato ancora più eclatante con un Reddito di Cittadinanza che non è un reddito di cittadinanza. Per intenderci, anche al fine di fronteggiare quelle problematiche sociali derivanti dal fatto che il lavoro è cambiato e che non garantisce più un’esistenza dignitosa a tanti attori sociali, è stato proposto un reddito di base incondizionato e universale. Quest’ultimo porta ugualmente dei rischi sociali con sé, di cui va tenuto certamente conto, come per esempio l’aumento delle disuguaglianze ancora una volta a discapito di vite e territori ai margini, per cui neanche esso basterebbe per riportarli al centro – servirebbe quello e l’altro. Resta il fatto che quello istituito in Italia è un reddito di cittadinanza che continua a iscriversi nello sviluppo economico liberale dove spazio per la sicurezza sociale non c’è oppure è esso stesso marginale.

Il punto cruciale di questa riflessione non è tanto la rilevazione di un paradosso di politiche sociali sature di ideologie o di stereotipi. Anche perché il buddhismo zen sostiene che la via alla verità definitiva è irta di paradossi, i quali sono infatti l’anima dei koan – brevi racconti che hanno il compito di risvegliare la consapevolezza. Similmente, l’arte del paradosso viene utilizzata in psicologia per sbloccare situazioni che sembrano essere senza via di uscita. I paradossi, in fondo, se da un lato destabilizzano, dall’altro possono essere illuminanti. 

Il punto cruciale è che, nei corsi e ricorsi del Reddito di Cittadinanza, il paradosso c’è, è sempre più multiforme, ma non viene disvelato per far luce sul fatto che il patto sociale del secolo scorso si è ormai rotto. E non può essere ripristinato con politiche che rimangono essenzialmente produttiviste, che non portino al centro i loro stessi beneficiari, che non considerino le loro biografie e neppure le loro esperienze rispetto ai processi e agli esiti delle policies. 

Beneficiari che, in tanti casi, vengono pure rappresentati con difficoltà, appartenenti al massimo all’esercito di riserva del capitalismo o a quelle comunità che verosimilmente vengono sfrattate dai propri luoghi di vita in seguito ai processi partecipativi di una politica urbana dal doppio volto. Citando Ken Loach questa volta: sorry we missed you, [again].

Che cambino allora i confini della rappresentanza, che la sinistra torni a essere sinistra, e che venga istituito un reddito di base incondizionato – eppure, non solamente quello: si pensi al salario minimo, si pensi ai servizi. Ripeterlo è stancante, ma sempre più necessario.

*Maristella Cacciapaglia è ricercatrice post-doc in sociologia dei processi economici e del lavoro presso il Dipartimento di Scienze politiche, della Comunicazione e delle Relazioni Internazionali dell’Università di Macerata. I suoi temi di ricerca riguardano principalmente le politiche pubbliche per vite e territori ai margini, in particolare nell’ambito del lavoro dignitoso e del welfare sostenibile. A livello nazionale ed internazionale, ha collaborato con diverse organizzazioni del Terzo Settore, imprese e centri di ricerca. Attualmente è impegnata in un progetto sull’imprenditoria sociale e in uno internazionale sulla relazione tra lower classes e istituzioni nella transizione ecologica.

Articolo pubblicato su Jacobin Italia 

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