Domani (giovedì 16 dicembre), a Roma nella prestigiosa Sala Parlamentino della sede del Cnel (Consiglio nazionale economia e lavoro), in viale Davide Lubin 2, sotto l’egida della Fondazione Bruno Buozzi alle ore 15,30 viene presentato il libro di Alessandro Roazzi “Roma contro Pirro – Il console plebeo che scacciò il re epirota dall’Italia”, Introduce e modera Giorgio Benvenuto, presidente della Fondazione “Bruno Buozzi”.

Intervengono Paolo Biondi, già responsabile Reuters Italia; Roberto Campo, presidente Istituto studi sindacali “Itali Viglianesi”, Carlo Felice Casula, docente Università “Roma Tre”. Sarà presente e interverrà l’autore.

Presentiamo l’eccellente recensione del libro scritta dalla professoressa Maria Pellegrini, autorevole studiosa di storia antica, che tra l’altro dal 1995 ha lavorato con il professor Luca Canali come coautrice o collaboratrice di traduzioni di classici latini e di saggi.

Ed ecco la recensione.

 

di Maria Pellegrini*

Alessandro Roazzi, giornalista appassionato di Storia romana, in un recente suo libro Roma contro Pirro (Bibliotheka Edizioni, 2019 pp. 160, € 16,00) pone al centro della sua narrazione la lunga guerra tra Pirro, re dell’Epiro, e i Romani.

Il volume rientra nel genere del romanzo storico, molto apprezzato e diffuso con precedenti illustri, basti pensare a Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano; Gore Vidal, Giuliano; Emma Pomilio Il ribelle, L’avventura della fondazione (di Roma).

L’attenzione di Roazzi è stata catturata da un periodo storico del lontano III secolo a. C. quando Roma venne a contatto con Pirro, condottiero straordinariamente abile, esperto nella teoria e nella pratica dell’arte della guerra, che aspirava a divenire un secondo Alessandro Magno. Ad affrontarlo saranno chiamati comandanti romani che Roazzi, da scrittore attento e fedele alle testimonianze degli storici antichi, presenta come uomini irreprensibili, non amanti del lusso, dediti a una vita semplice e rispettosi di quel codice morale che è il mos maiorum, «il costume degli antenati». La loro condotta rispecchia ciò che Ennio negli Annales aveva affermato: Moribus antiquis res stat Romana virisque. «Sui costumi e sugli uomini antichi si regge lo Stato romano».

I principali protagonisti delle vicende narrate (Appio Claudio, Curio Dentato, Gaio Fabrizio, Tiberio Coruncanio), appartengono ai primi tempi della Repubblica romana e sono descritti a volte in tutta la loro integrità morale ed eroicità, ma anche tratteggiati nella loro vita privata e nei rapporti familiari. Il modello di comportamento è quello incarnato da quegli uomini dell’antica Roma dotati di virtù eccezionali: il disprezzo del pericolo e del dolore fisico, la tenacia di fronte alle avversità, la laboriosità, la salda disciplina morale che si basava sul rispetto degli antichi costumi.

Nel ripercorrere le guerre combattute contro Pirro tra il 282 e il 275 a. C., a molti di noi lettori tornerà alla mente l’impressione ricevuta dalle immagini dei libri sui quali apprendemmo le prime nozioni di storia dove Pirro era raffigurato con elefanti al seguito del suo esercito, animali sconosciuti ai soldati romani che ne furono impressionati, non solo per la loro mole ma anche perché portavano in groppa una torretta con arcieri che potevano colpire dall’alto i loro avversari. Fonti storiche antiche, soprattutto Plutarco, ma anche Livio, Appiano, Eutropio, Valerio Massimo, Vittore, hanno documentato il motivo e l’avvicendarsi dei fatti bellici intraprese da Pirro contro Roma. Dopo il successo delle guerre sannitiche che aveva visto la sconfitta dell’alleanza dei popoli dell’Appennino, Roma aveva assunto il controllo di tutta l’Italia peninsulare trasformandosi da potenza regionale in potenza mediterranea. Taranto, una delle più ricche e fiorenti colonie della Magna Grecia aveva stretto con lei patti di reciproco aiuto. Ma presto, a causa di una violazione degli accordi da parte di Roma, Taranto chiese aiuto a Pirro che fu ben felice di intervenire perché da tempo nutriva ambiziosi progetti espansionistici.

Il primo scontro avvenne a Eraclea, non lontano dalla costa del golfo di Taranto, nel 280 a. C. Una battaglia violenta e sanguinosa dove ebbe la meglio la forza e abilità tattica degli epiroti, ma a determinare la sconfitta fu decisiva la presenza in campo degli elefanti, che seminarono il panico fra la cavalleria romana. Anche per il condottiero epirota le perdite furono numerose. Pirro però rimase impressionato dalla disciplina e dalla ordinata disposizione delle truppe con le quali si era battuto e, secondo il racconto di Livio, guardando i corpi dei romani che erano caduti sul campo di battaglia, tutti con il petto rivolto al nemico, esclamò: «Con tali soldati il mondo sarebbe mio».

Una caratteristica della narrazione di Roazzi è l’inserimento di dialoghi da lui immaginati che rendono più verosimile e vivace il racconto di tragici momenti, come quello svoltosi dopo la sconfitta di Eraclea. A parlare è Coruncanio (console in quell’anno insieme a Valerio Levino) che rivolto al virtuoso Fabrizio, e al valoroso Curio Dentato, descrive quanto è accaduto sul campo di battaglia: «Una catastrofe! Pirro ci ha quasi sterminato. Lo scontro è stato accanito e incerto con molte perdite da entrambe le parti fino a che non sono entrati in battaglia quei mostruosi bestioni che chiamano elefanti. I nostri legionari non ne avevano mai visti e hanno abbandonato le armi atterriti. Abbiamo tentato di ricomporre le fila ma l’impeto di quegli animali è stato devastante […] i morti laggiù non si contano». Curio Dentato abbracciò l’amico e gli sussurrò: «Ma tu sei vivo ed è importante per noi. A quel che mi dici anche i nemici hanno subito perdite». «Molte, lo scontro fu sanguinoso. Pirro quella notte pianse molti valorosi comandanti ed amici. Ma a noi è andata molto peggio, inutile negarlo. Roma è stata sconfitta».

Il re epirota decise di sfruttare il successo avuto ad Eraclea e di muovere su Roma, ma poi decise che fosse meglio cambiare tattica e incaricare il suo fidato Cinea, descritto come uomo di grande abilità oratoria e diplomatica, per trattare la pace. Ma l’ambasciatore tornò deluso dalle trattative con i Romani ai quali aveva portato ricchi doni. C’era chi avrebbe voluto patteggiare con Pirro, ma l’intervento di Appio Claudio Cieco con un discorso appassionato riuscì a convincere il Senato a non accettare trattative finché il nemico si trovasse sul suolo italico.

Un altro episodio, quasi leggendario, è l’ambasceria di Caio Fabrizio nel campo di Pirro per trattare il riscatto dei prigionieri. «Pochi come lui a Roma potevano assolvere ad un compito così impegnativo», aggiunge Roazzi, che nella sua narrazione ne interpreta i sentimenti e i pensieri e lo accompagna con sguardo trepidante e compiaciuto: «Fabrizio giunse al campo di Pirro con il cuore in gola. Sapeva di rischiare la vita, ma per Roma ed i suoi figli doveva tentare». Un servo di Pirro ruppe quel sinistro silenzio e l’invitò a raggiungere il Re nella sua tenda. L’incontro fu cordiale. Fabrizio andrò dritto al motivo di quella visita: «Il mio scopo è limpido: riscattare e scambiare prigionieri. Non è la prima battaglia che Roma perde, ma abbiamo ancora la schiena ben diritta. Il nostro popolo ha molti difetti probabilmente, ma un pregio ce lo riconosciamo: ignoriamo cosa è la rassegnazione […] quando la patria è in pericolo sappi che a Roma ogni divisione scompare. Non ci sono più patrizi o plebei, ci sono solo Romani».

Nonostante l’offerta di ricchi doni Fabrizio non si lasciò corrompere e mostrò fedele alla parola data riportando a Pirro i prigionieri a lui consegnati perché convincesse il Senato ad accettare trattative, cosa che non avvenne.

Un nuovo scontro con Pirro avvenne l’anno seguente (279 a. C.) presso Ascoli (odierna Ascoli Satriano) e fu di nuovo una sconfitta dolorosa, seimila romani e il console Decio Mure rimasero sul campo. Ma anche Pirro subì molte perdite e soprattutto vide fallire il disegno di unificare in un solo stato tutti i Greci d’Italia. In una battaglia decisiva Curio Dentato, «il console plebeo», lo scacciò definitivamente dall’Italia dopo averlo sconfitto presso Maleventum, poi mutato in Beneventum nel 275 a. C.

Abbiamo riportato solo alcuni passaggi di dialoghi che si alternano numerosi nella narrazione, ma l’Autore tratteggia anche le ambientazioni, la foggia dei vestiti, la descrizione dei luoghi, siano «dolci colline disseminate di ulivi» o «le mura dell’antica Tuscolo»; i prati punteggiati «di ville e umili case di campagna» o certe atmosfere: quando un mattino Curio s’incammina verso il Senato «la nebbia avvolgeva i colli di Roma. L’umidità entrava nelle ossa, il cielo ingrigito incupiva gli animi».

La lettura sempre agevole conferma le buone doti di narratore di Roazzi, che delinea i personaggi con finezza psicologica; ad alcuni dedica più attenzione e sembra immedesimarsi con essi: Curio Dentato è descritto attraverso le parole di Fabrizio: «Appare ombroso, scostante, autoritario. Ma se lo seguono in battaglia, se lo stanno a sentire nel Foro è perché il suo carisma crea fiducia, le apparenze scostanti del carattere non contano. Vedrai che nella storia di Roma questo mangiatore di rape passerà come un esempio di romano integerrimo».

L’agricoltura era la principale occupazione della popolazione e anche i membri della classe dirigente coltivavano i propri appezzamenti con le loro mani. Non stupisce quindi trovare Curio «intento a cucinare le rape», oppure «a impugnare la zappa invece che la spada senza alcun rimpianto». La sua corporatura è impressionante ma è il portamento ad incutere timore. Il duro guerriero ha però un cuore e lo vediamo con gli occhi rossi per la commozione dovuta al ricordo della sua Lucilla: «il vuoto che aveva lasciato la moglie era ancora un coltello piantato nel fianco».

In un dialogo con Fabrizio, Tiberio Coruncanio lancia una frecciata contro i nobili che pensano ad arricchirsi depredando le nuove terre conquistate: «L’ingordigia dei patrizi si è moltiplicata. Ma la voracità è cattiva consigliera. Dimenticano che davanti a loro non ci sono solo terre sulle quale piantare l’aquila romana, ma popoli dotati di antica civiltà, orgogliosi e potenti». Nelle parole di Tiberio è indicata una caratteristica di quello che fu il modo con cui i romani cercarono di trattare i popoli sottomessi, con tolleranza lasciando a tutti una certa libertà, le leggi e i costumi dei propri avi. Le genti romanizzate lentamente senza imposizioni, con un’autonomia controllata, si adeguavano tanto da divenire i più strenui difensori della “Romanità”.

*Docente, storica dell'età antica

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