"Nella riforma costituzionale ci sono almeno quattro luoghi comuni".
"I luoghi comuni modellano i nostri giudizi e, a loro volta, i giudizi modellano le nostre azioni. Sono normativi, legiferano.”
Questa è la definizione che Zagrebelsky dà ai luoghi comuni.
Nei luoghi comuni siamo immersi e occorrerebbe prenderne le distanze, ma, inconsapevolmente, ci caschiamo spesso, perché semplificano, guardano da una sola parte ed escludono l’altra, e così facendo tranquillizzano e sono riposanti, e tutto ciò è fuorviante.
Non possiamo accontentarci del primo sguardo, ma smontare il luogo comune è difficile, perché si è costretti a complicare e la complicazione rende inquieti, affatica, contrappone.
Nella riforma costituzionale vedo almeno quattro luoghi comuni.
IL CAMBIAMENTO
Cambiare significa “trasformare lo stato di cose esistenti”, come diceva il filosofo di Treviri.
Guardando attentamente il problema si dovrebbero cambiare (trasformare) le cause che generano le contraddizioni del nostro tempo: povertà, disoccupazione giovanile, tutela del territorio, lavoro, sanità, scuola, immigrazione. Si dovrebbe progettare uno nuovo Welfare-State, potenziando quegli interventi diretti a superare gradualmente quelle drammatiche questioni attraverso mirati investimenti economici e tecnici, ed emanare nuove leggi che regolino efficacemente queste vere e proprie emergenze sociali. Ora quello che si fa è il contrario: si riduce drammaticamente la spesa sociale, si precarizza il lavoro, si privatizzano i servizi, si individualizzano i diritti, contraddicendo palesemente la legge fondamentale.
Quindi, a mio avviso, perché ci possa essere un vero cambiamento, riconosciuto e visibile da tutti, si dovrebbe cambiare la costituzione materiale del nostro ordinamento sociale e non quella formale che, a differenza della prima, tutela i più deboli e impone allo stato di rimuovere le cause che impediscono a qualsiasi cittadino di migliorare progressivamente il suo stato. Come si può altrimenti perseguire il concetto di uguaglianza?
Ma credo che proprio questo principio si voglia eliminare del tutto.
LA GOVERNABILITA'
La nostra è una Repubblica Parlamentare. Questo vuol dire che i Governi debbono avere la fiducia del Parlamento che rappresenta l’organo legislativo del nostro ordinamento costituzionale. Le varie maggioranze politiche, quindi, si costituiscono proprio lì. E, fortunatamente, essendo in vigore il pluralismo politico anche da compromessi fra le varie forze. È normale e democratico che se salta un qualsiasi accordo programmatico i governi cadono.
Capisco e condivido che molte delle crisi politiche che abbiamo avuto sono derivate da speculazioni fine a se stessi (dal 1955 al 1965, gli anni del boom economico, si sono alternati 11 governi cosiddetti balneari, l’economia continuava a crescere, ma i problemi erano altri), ma questo non vuol dire affrontare la questione attraverso una riforma elettorale che riduce drasticamente la democrazia e la rappresentanza.
Trovo più serio, pur nella mia totale contrarietà, chi sostiene una repubblica presidenziale, che comunque può avere, come è successo negli stati dove è in vigore questa forma di stato, dei momenti di ingovernabilità e di stallo politico se il presidente eletto a suffragio universale è di un orientamento politico diverso da quello del parlamento, sempre eletto a suffragio universale. In questo caso può succedere che le riforme presentate dal presidente, capo del governo, siano bocciate dal parlamento perché ispirate a principi diversi dalla sua ispirazione culturale. A testimonianza di quanto il parlamento sia centrale per il principio di “pesi e contrappesi” indispensabili per rispettare la democrazia.
Ma parte le forme giuridiche della repubblica, qui è in pericolo la sovranità popolare. La riforma la riduce ulteriormente. Le politiche che i vari esecutivi devono portare avanti sono dettati dalla UE, dalla BCE (come Draghi ha recentemente affermato), dal FMI. Sono quelle stesse politiche che impediscono l’autonoma governabilità di un paese che non c’entra nulla con il concetto di Europa di Altiero Spinelli.
Quindi a chi serve questa governabilità? Non certo al disoccupato, al giovane, al pensionato.
SEMPLIFICAZIONE
Si dice che dobbiamo semplificare il nostro ordinamento legislativo.
Per dimostrare la impellente necessità di semplificazione viene preso letteralmente d’assalto il cosiddetto “bicameralismo perfetto o paritario”, attribuendo a questa forma parlamentare, ovvero il Parlamento diviso in due rami, camera dei deputati e senato della repubblica che devono approvare lo stesso testo di legge, la natura della pesantezza del nostro iter legislativo.
Questo luogo comune incide profondamente sulle coscienze di molti e difficile è rimuovere queste forti convinzioni. Ma a vedere bene il tempo che occorre per approvare una legge ci si rende conto di quanto questo sia pretestuoso e falso. I tempi medi necessari per approvare una legge sono di circa 10 giorni, compresa la promulgazione del Presidente della Repubblica e la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. Attualmente esistono solo due modi di iter legislativi, con la riforma ne avremo minimo 7, qualche costituzionalista ne individua 12, altri non si esprimono per quanto è confusa la riforma in questa materia. Non che il bicameralismo sia la Bibbia, ma discuterne senza pregiudizi per trovare la soluzione migliore credo sia indispensabile. Il suo superamento è in discussione da tanti anni. Il primo a parlarne fu Pietro Ingrao, ma come non dire che spesso la doppia approvazione abbia salvato da leggi inaccettabili?
Viva la semplificazione, ma qui siamo al punto che per semplificare si devono complicare le cose semplici.
COSTI DELLA POLITICA
Un altro tema caldo che scalda le passioni di molti.
Non voglio sottacere assolutamente sugli sprechi di denaro pubblico e sul dramma della corruzione, l’uno legato all’altro, e non voglio sottacere sui valori indispensabili come l’onestà e l’etica per chi si occupa della gestione della cosa pubblica, anche se questi dovremmo considerarli valori universali validi per tutti i cittadini di qualsiasi grado e censo.
Se continuiamo a dire ed affermare che politica è sinonimo di corruzione e malaffare finiamo per condannare a morte la democrazia, cosa invece fondamentale per contrastare quelle derive pericolose e disoneste. Tagliando il numero dei senatori, non più eleggibili, ma nominato dal ceto politico spesso corrotto, noi mortifichiamo la democrazia e non riduciamo i costi, inoltre deviamo l’opinione pubblica sul vero problema dei nostri disastri finanziari che generano l’aumento del debito pubblico.
Dobbiamo essere consapevoli che esso non deriva da una spesa eccessiva, anche se irrazionale per usare un eufeismo, ma dalla speculazione finanziaria sul debito stesso. Il bilancio primario dello stato, ovvero al netto degli interessi che paghiamo (circa 100 miliardi l’anno), è in attivo. Questo vuol dire che le spese complessive dello stato sono inferiori alle entrate complessive. Qui c’è tutta la storia sulla natura del nostro debito, da quando è cominciato a lievitare fino ai nostri giorni. Tutta l’informazione ne attribuisce la responsabilità alla prima repubblica. Ebbene basta andare su google, digitare storia del debito pubblico e rendersi conto che fino al 1981 il debito era il 40% del PIL, poi è salito fino ai nostri giorni al 130%.
Verrebbe da dire “a ridatece er puzzone”.
Diffidiamo dei luoghi comuni, indaghiamo e soprattutto informiamoci, qui è in gioco la democrazia nostra e delle future generazioni.
Hegel affermava che le apparenze differiscono dalla realtà, Marx proseguiva dicendo che se esse (le apparenze) coincidessero con il reale non avremmo bisogno della scienza.
Attilio Gambacorta
coordinamento comprensorio Valle Umbra Nord di Sinistra Italiana
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